Blue Whale? «Non istigò al suicidio»
La procura chiede l’archiviazione per la studentessa di 19 anni finita sotto inchiesta
Nel suo account Twitter, invitava i follower a «contattarmi personalmente». Voleva che «il gioco» avesse «inizio». Si faceva chiamare «Whale-Challenge» e alcuni dei suoi interlocutori le rispondevano «non voglio ammazzarmi», per uno scambio di messaggi che la scorsa estate sfociò nell’apertura di un’inchiesta per istigazione al suicidio. Accusa che, adesso, la procura scaligera ha deciso di far cadere: «Il reato non sussiste» ha «sentenziato» il pm .
Nel suo account Twitter, invitava i follower a «contattarmi personalmente». Voleva che «il gioco» avesse «inizio». Si faceva chiamare «Whale-Challenge» e alcuni dei suoi interlocutori le rispondevano «non voglio ammazzarmi», per uno scambio di messaggi che la scorsa estate sfociò nell’apertura di un’inchiesta per istigazione al suicidio. Accusa che, adesso, la procura scaligera ha deciso di far cadere: «Il reato non sussiste» ha «sentenziato» il pm Elisabetta Labate chiudendo la fase delle indagini preliminari nei confronti di una ragazza veronese di 19 anni. Un «verdetto» tutt’altro che definitivo: sull’istanza di archiviazione posta nero su bianco dall’accusa, infatti, dovrà ora pronunciarsi il gip.
Lo scorso giugno, la chat su cui ruota l’intera vicenda balzò all’attenzione della polizia postale di Palermo prima, e della procura di Verona poi. Quel profilo social ritenuto subito «sospetto» dagli investigatori, infatti, risultava riconducibile a una studentessa non ancora ventenne di Zevio: dopo che gli atti vennero trasmessi d’urgenza dalla Questura siciliana ai magistrati di Venezia, l’intera documentazione era stata girata al secondo piano dell’ex Mastino dove il fascicolo venne aperto immediatamente. Il nome della giovane veronese, che è difesa dall’avvocato Lorenzo Ferraresi, risultava fin dal primo momento l’unico iscritto nel registro degli indagati su iniziativa del pm Labate, che ottenne il sequestro del telefonino dell’indagata. Sotto sigilli, finì poi anche il computer portatile della ragazza e su entrambi venne eseguita per mano degli investigatori una scrupolosa analisi a caccia di eventuali prove valide a sostenere un’accusa tanto pesante. Dal canto suo, la giovane ha sempre respinto contestazioni così gravi, dando una spiegazione alternativa: la sua tesi, in sostanza, è di non essere stata «fraintesa», di «non essere stata capita». Ed evidentemente, a giudicare dall’epilogo verso cui si sta avviando, l’inchiesta le avrebbe dato ragione, confermando le argomentazioni della difesa: «Le indagini svolte - si legge infatti nell’istanza di archiviazione - portano a escludere la sussistenza del reato ipotizzato». A parere della procura, dunque, non ci sarebbe stata alcuna istigazione al suicidio dietro quei tweet datati metà maggio 2017: «Se deciderai di toglierti la vita con questo gioco, che ne sarà dei tuoi genitori? Dei tuoi fratelli, sorelle se ne hai? Ragiona», scriveva un utente. Un altro, domandava «Ma sei un vero curatore»? E un altro ancora: «No, aspetta, che cazzo c’entra la The Rainbow Challenge»? Otto, in particolare, i messaggi «incriminati»: ma dietro quello scambio, per il pm, non c’era alcun reato.