Lo storico coraggioso contro il terrorismo
Gli articoli sul Corriere della Sera di Angelo Ventura raccolti in un libro dell’allievo Fumian
Fu colpito come uno che troppo si stava avvicinando alla verità
Il suo primo articolo per il Corriere della Sera venne pubblicato il 4 maggio 1979 e fu quasi occasionale: a meno di un mese dal «7 aprile» il quotidiano gli aveva chiesto una analisi del fenomeno Autonomia operaia. A lui, Angelo Ventura, lo storico in quel momento nell’ombelico del mondo «rivoluzionario», cioè Padova. A lui che dalla cattedra e soprattutto dalla direzione dell’Istituto Veneto per la storia della Resistenza, dall’inizio degli anni ‘70 aveva studiato il terrorismo prima nero e poi rosso. A lui, infine, che insegnava ad un tiro di schioppo, anche meno, da Toni Negri. E’ probabile che questo suo scritto, «impietosa radiografia del progetto rivoluzionario di Autonomia operaia», come scrive Carlo Fumian, sia stata la ragione dell’attentato subito pochi mesi più tardi, il 26 settembre. Un commando del Fronte comunista combattente lo affrontò, ma Ventura se lo aspettava e da tempo aveva una pistola: reagì al fuoco, venne ferito ad un piede, gli attentatori si dileguarono. Avrebbe potuto essere un omicidio, da tempo sui muri lo spray scriveva «Attento Ventura ti faremo fuori», così come «Sparare ai docenti è un nostro diritto». Angelo Ventura è stata l’unica vittima del terrorismo ad aver reagito agli aggressori. «Aveva coraggio», dice oggi il suo allievo Carlo Fumian che è il curatore della raccolta degli articoli di Angelo Ventura pubblicati sul Corriere della Sera: dopo quel primo, la collaborazione si ravviva nel 1987 e continua per quattro anni, molto intensa. Oggi quei «pezzi» sono raccolti con il titolo Uno storico contro il terrorismo» in una curatissima edizione della Fondazione Corriere della Sera e tornano ad essere uno strumento di strettissima attualità: per gli intellettuali, gli storici e, si spera, per i giovani. Il coraggio di Ventura non era quello del pistolero: era quello della «weberiana probità intellettuale» che gli aveva fatto scandagliare i mortiferi vagiti del terrorismo neofascista, la cui culla dal ‘69 con Freda e Ventura era sempre stata Padova. E poi analizzare il formarsi dei movimenti insurrezionali di sinistra, da Potere operaio ad Autonomia: documenti alla mano, ma anche respirando fisicamente l’aria investita dalle ventate della rivoluzione (im)possibile, aveva sostenuto la linea comune che dalle dottrine di Toni Negri portava fino alle Br. Scrive Fumian: «Ventura fu colpito non tanto come simbolo politico-ideologico quanto, più concretamente, come uno degli avversari che troppo si stavano avvicinando alla verità, come Carlo Casalegno, Walter Tobagi, Emilio Alessandrini». Emerge prepotente il ruolo dello storico, ma soprattutto il suo modo di lavorare: dalle carte degli archivi bisogna saper estrarre quel «fremito di vita umana» che vivifica il tempo. Lo diceva Marc Bloch, sottolineando l’importanza dell’«esperienza vissuta». E se nella sua formazione Angelo Ventura si era dedicato alla storia della Serenissima e del Risorgimento, eccolo poi affrontare la contemporaneità con studi sul fascismo e sul socialismo, per scrivere infine del presente. Mai come per lui «esperienza vissuta». Ma non inquinata: se a caldo la sua pubblicistica è comunque analitica, anche nello scrivere per il Corriere della Sera a distanza di anni non affiorano mai accenni di rivalsa, vendetta o una visione condizionata dall’appartenenza politica. Lo storico resta storico: documenti, analisi dell’analisi altrui, testimonianze, tutto questo porta al concetto di «presente come storia» e di conseguenza al ruolo dell’intellettuale nella società. Non viveva tra le ragnatele e l’odore stantio delle vecchie carte, Ventura. Il suo presente era anche quello dei protagonisti della storia attuale e dei lettori. E se era storico, il prof dal carattere spigoloso era anche protagonista: socialista, di quelli veri, dopo l’attentato ha un affettuoso scambio di lettere con Pietro Nenni; «riscopre» Silvio Trentin e partecipa alla pubblicazione delle sue opere, cinque volumi; partecipa al dibattito politico.
Sul Corriere della Sera si oppone al terrorismo con la luci-
dità dell’analisi e non con gli slogan della politica. Offre strumenti interpretativi e informazioni per la comprensione, oltre che motivi solari per un’opposizione efficace. E’ diretto, tranchant, non è possibile capire diversamente quello che scrive. Ventura non sempre si fidava a scrivere sui giornali, nonostante avesse pubblicato sull’ «Avanti», «Il Resto del Carlino», «Paese sera», «la Repubblica». Al Corriere riprende il filo di amicizia e stima che lo lega al giornalista Tino Neirotti, gentleman e galantuomo diventato vicedirettore ai tempi di Ugo Stille. Ecco i quattro anni di collaborazione, nel periodo cruciale in cui il terrorismo, pur sconfitto, non è morto. La linea, va da sè, è quella dell’intransigenza, stigmatizzando anche le incertezze e le simpatie di certo ceto intellettuale verso l’estremismo, l’indulgenza politica verso terroristi pentiti e dissociati. Scrive e studia, Ventura: tanto che nel 2010 raccoglie i suoi lavori nel volume Per una storia del terrorismo italiano. Un lungo sguardo sul presente, come già nei fondi per il Corriere. Che però guardavano anche avanti, all’evoluzione di un passato intricato. Obbligano alla riflessione ancora oggi due stralci di questi «pezzi». Uno apparso sul «Carlino» il 2 agosto ‘91, primo anniversario della strage alla stazione di Bologna: «Perché mai avrebbero dovuto contrastarli (i fanatici «rossi» della lotta armata rivoluzionaria, ndr) quei centri di potere occulto che per gli stessi fini avevano promosso e strumentalizzato le trame nere?». E ancora, sul Corriere della Sera del 29 marzo ‘88: «Il Partito armato certo non passava inosservato. Contava centinaia di aderenti e simpatizzanti, facile campo di infiltrazioni anche da parte del più scalcinato dei servizi di sicurezza. Il terrorismo di sinistra poteva essere stroncato fin dalle origini. Se, come per il terrorismo di destra, questo non avvenne, ciò costituisce uno dei capitoli più ostili e inquietanti nella storia recente del nostro Paese». Scriveva chiaro, Ventura, perché gli piaceva rifugiarsi «nel terso cielo della ragione».