«Dylan spiazza? Lui odia l’ordinario»
Stasera il grande ritorno in Arena. Marco Ongaro racconta il menestrello del rock
«È un tipo di esperienza che bisogna fare che va ben al di là del sentire dal vivo le canzoni che si conoscono. Dylan le stravolge, le rende qualcosa di inimitabile. C’è un fascino e un distacco nel sentirlo dal vivo che è dato dal fatto che non si troverà mai quello che si vorrà sentire, ma si scoprirà sempre qualcosa di nuovo: un Dylan che si rigenera sempre». Il cantautore Marco Ongaro racconta il «menestrello del rock» che stasera sarà in concerto in Arena.
È il giorno di Bob Dylan. Questa sera «His Bobness» sarà in Arena, trent’anni dopo il suo ultimo live, e ancora di più da quel maggio 1984 in cui si esibì dopo Carlos Santana (biglietti disponibili in cassa, ore 21, info www.dalessandroegalli.com). Per parlare del live e del suo protagonista abbiamo intervistato Marco Ongaro, cantautore, poeta e scrittore veronese che ben conosce la sua arte. Quando ha scoperto Bob Dylan?
«L’ho studiato tra i 17 e i 18 anni, suonavo leggendo la biografia scritta da Anthony Scaduto ascoltando i dischi e leggendo i testi. Ho studiato Dylan attentamente, imparato le sue inflessioni, cantato le sue canzoni. Come si fa a conoscere un poeta se non recitandolo? Come si fa a conoscere un cantante se non cantandolo?» Questa sera sarà ad applaudirlo in Arena?
«Forse sì, forse no. Il dubbio sull’andare a sentirlo o meno lo sciolgo all’ultimo minuto. Detto questo, una volta nella vita lo si deve sentire. Ad ogni costo. Io quel momento in cui il contatto diventa fisico in un live l’ho già avuto nel 1984: quello spirituale non si romperà
mai». Perché bisogna vederlo almeno una volta nella vita?
«È un tipo di esperienza che bisogna fare che va ben al di là del sentire dal vivo le canzoni che si conoscono. Dylan stravolge le proprie canzoni, le rende qualcosa di inimitabile, le rende uniche. C’è un fascino e un distacco nel sentirlo dal vivo che è dato dal fatto che non si troverà mai quello che si vorrà sentire, ma si scoprirà sempre qualcosa di nuovo: un Dylan che si rigenera sempre dalle sue ceneri come una Fenice». Che ricordi ha della serata del 1984?
«Ricordo la pioggia. Ricordo che il pubblico era più interessato alla serie noiosissima di assolo dei musicisti di Santana che apriva lo spettacolo.
Dylan invece finiva di cantare appena si chiudeva la canzone: di una sobrietà straordinaria. Nei bis chiese“è Mr Tambourine Man che vorreste?”, e poi ne fece un’altra». Molti odiano il fatto che renda irriconoscibili le canzoni nel live, per lei non è così? «Lo fa da sempre. Fa benissimo ad abituarci a questa desacralizzazione che in realtà sacralizza la canzone nell’istante in cui viene eseguita. Il suo concetto estetico è la fruizione della canzone; si lascia al disco solo il momento ideale in cui la canzone può essere proposta come esemplare. Ci ho messo anni ad accettare questa sua genialità, data dalla comprensione profonda del mezzo canzone. La canzone in Dylan è qualcosa di vivo che continua a vivere ogni volta che viene cantata, quindi sarà sempre diversa. Come la sua voce, la cosa più sacra che esista». La grandezza di Bob Dylan sta proprio in questo?
Queste delicate variazioni, che diventano irripetibili, sono la sua grandezza, oltre alla ricchezza poetica che è indiscutibile». Come giudica le critiche al Nobel per la letteratura? «Le critiche sono arrivate dagli invidiosi. Le ha iniziate Alessandro Baricco. Gente che non ha neppure presente Nietzsche che nella “Nascita della tragedia” ricorda che la poesia in origine era cantata. A parte che potrebbe bastare il primo volume della sua autobiografia, in cui saccheggia il meglio della letteratura. Un grande saccheggiatore lo è sempre stato, ha avuto per la musica quello sguardo rapace che Picasso aveva per i quadri».