Tommasoli, manca ancora l’ultimo verdetto
Due componenti del «branco» hanno fatto ricorso in Cassazione
Sono passati dieci anni dall’aggressione e dalla morte di Nicola Tommasoli. Ma la «giustizia» invocata da sua madre Maria a maggio del 2008 ha ancora degli strascichi nelle aule di tribunale, con il ricorso in Cassazione dei due dei cinque componenti del «branco» che lo picchiarono.
«La cosa più importante è che su questa storia si faccia chiarezza e soprattutto giustizia... E tante parole che ho sentito in questi giorni mi fanno piacere, ma arrivano sempre dopo. Dopo che c’è stata una violenza così, che è assolutamente lontana da noi». Parlava così, Maria. E sono trascorsi dieci anni. Era una madonna, in quei giorni Maria. Anche lei con un figlio che stava morendo. È durata 72 ore l’agonia di Nicola Tommasoli. Quella di sua madre Maria e di suo padre Luca per avere giustizia continua da dieci anni. E il golgota legale ha fatto da contrappasso al calvario del dolore. Nicola è morto il giorno dopo che Maria disse quella frase, il 5 maggio 2008. I suoi organi vennero donati. Ma la giustizia invocata da Maria in parte deve ancora arrivare. Almeno per due componenti di quello che venne definito «un branco». Hanno fatto ricorso in Cassazione, dopo tre processi d’appello e una condanna a sei anni e 8 mesi, Guglielmo Corsi e Andrea Vesentini.
L’aggressione
Ultimo strascico di una vicenda legale, ma soprattutto umana, iniziata la notte del primo maggio di 10 anni fa. Erano le 2,50 in corticella Leoni quando Nicola Tommasoli venne massacrato con un calcio. Aveva - e avrà per sempre 28 anni, Nicola. Una fidanzata, Erika, con cui viveva a Negrar in una casa vicino a quella di Luca e Maria. Una laurea a Venezia e un lavoro, come designer in una fabbrica di moto. Codino riccio, la passione per lo skate e tanti amici, quelli che lo chiamavano «Tommo». Come i due - Edo e Andrea che erano con lui quella notte. Quella in cui hanno incontrato il branco. Un gruppo coeso. Cinque ragazzi, tutti tra i 18 e i 20 anni. Militanza nella destra radicale, alcuni. Se per Tommo e i suoi amici il collante era l’aria di quelle tavole che facevano scorrere sulle strade o sulla neve, quelli del «branco» erano uniti dal modo di vestire. Di pensare. E nell’ignoranza. L’ignoranza del rispetto. Quella che ti impone di «contrastare» chi non è «omologato».
La morte
A Verona di quella «rissa» in corticella Leoni si seppe la mattina dopo. Si diceva di un ragazzo colpito alla testa, grave in ospedale. Era obnubilata dalla festa per il Primo Maggio, Verona. E anche dal desiderio che non fosse nulla più. «È stato aggredito per aver negato una sigaretta», fu la versione che prese forma man mano che Nicola moriva nel reparto di Neurochirurgia, con il cervello che annegava nel suo stesso sangue.
Ma chi conosce il mondo dell’antagonismo a Verona, sapeva che quella non poteva essere la motivazione. Si susseguivano da tempo, quelle «risse» in centro. E il branco cambiava solo negli appartenenti, ma non nel modus operandi. E nel branco, quello degli «episodi occasionali» come li definì l’allora sindaco Flavio Tosi, i colpevoli di quell’aggressione mortale vennero individuati.
Il «branco»
Vennero fermati mentre Nicola moriva, i cinque accusati di averlo picchiato. Il primo a costituirsi fu Raffaele Dalle Donne, il «Raffa». Diciannovenne studente del Maffei, all’epoca dei fatti. La sera dopo vennero presi Guglielmo Corsi detto «il biondo», 19 anni metalmeccanico. Quello che aveva chiesto la sigaretta a Nicola. E Andrea Vesentini, 20 anni promotore finanziario. Tutti e due di Illasi, vicini di casa. Due giorni dopo è stata la volta di Federico Perini, detto il «Peri» e Nicolò Veneri, il «Tarabuio». I due che avevano tentato di scappare a Londra. «Facevano della violenza il loro credo», disse il questore di allora Vincenzo Stingone. Alcuni di loro anche con un «credo politico». Militanti di Forza Nuova, che all’indomani degli arresti li liquidò come dei «riempi-lista». La memoria
«Nicola è ognuno di noi», era scritto su uno striscione in quel sacrario temporaneo che divenne la ringhiera degli scavi in corticella Leoni. E ogni madre pensò che anche al proprio figlio - se non minimamente «omologato» - sarebbe potuto accadere. Vennero tirati in ballo sociologi, esperti, politologi. Ogni bendiddio che potesse in qualche modo «spiegare». Ma davanti a quei cinque ragazzi dalla faccia pulita e coi capelli rasati, la città vacillò. Divenne una fucina di reazioni, Verona. Reagirono le madri, che fondarono un’associazione. Tentò di reagire la politica amministrativa, anche se il consiglio comunale straordinario dedicato a Nicola venne sospeso. Reagì la politica «antagonista» di sinistra, con l’ala anarchica che picchiò e imbrattò quando ci fu da manifestare. Ma il tempo passava. E Verona, come sempre, si acquattava. Lo si capì alla prima udienza del processo per la morte di Nicola, nel febbraio del 2009. C’era il sindaco Tosi, giusto per controllare che la costituzione di parte civile filasse via liscia. C’erano alcuni studenti. C’erano Maria e Luca che sono stati presenti a tutti i processi. «Manca una parte di me», disse Luca. Non c’era, in quell’aula, vuota di cittadini e di memoria, la Verona «civile». Venne intitolato a Nicola il centro aggregativo di Borgo Venezia. Di lui rimane una tomba al cimitero di Negrar e una lapide in corticella Leoni, vergata con le parole volute da Maria. «Qui il 1° maggio 2008 è stato strappato alla sua giovane vita Nicola Tommasoli. Il suo ricordo sia per tutti un richiamo ai valori di rispetto della vita umana, di tolleranza e convivenza civile il cui smarrimento fu causa della sua scomparsa».
La scritta sulla lapide
Il ricordo di Nicola sia per tutti un richiamo ai valori di rispetto della vita, di tolleranza e convivenza civile il cui smarrimento fu causa della sua scomparsa