«Salvatemi o papà mi uccide»
Segregata in Pakistan, le richieste di aiuto via smartphone. E adesso si muove la Farnesina Costretta ad abortire dai familiari, l’audio-choc inviato dalla studentessa alle amiche
È un file audio-choc, spedito a una compagna di scuola da Farah, 19 anni, la ragazza pachistana che viveva a Verona e che è stata riportata dai genitori in patria il 23 febbraio scorso, dove l’avrebbero costretta ad abortire non accettando la gravidanza fuori dal matrimonio. «Finché ubbidisco stanno buoni, ma se mi scoprono .E ancora: «Tutto deve essere fatto alla svelta, se no stavolta mio padre uccide pure me». Si muove la Farnesina.
La voce è quella di una ragazzina che dimostra meno della sua età. Il tono basso, arriva dall’apparecchio quasi come un sussurro. «Ti prego», ripete. «Chiama l’associazione Amnesty, provate a scrivere delle e-mail... Non so quanto ci metteranno i miei genitori a scoprire che ho questo telefono e a picchiarmi…». È il file audio spedito a una compagna di scuola da Farah, 19 anni, la ragazza pachistana che viveva a Verona e che il 23 febbraio è stata riportata dai genitori in patria, dove l’avrebbero costretta ad abortire perché non accettavano l’idea di un figlio nato fuori dal matrimonio e tanto meno la relazione tra lei, musulmana, e il fidanzato che si professa cristiano.
«Picchiata e legata»
Il Corriere di Verona ha potuto ascoltare la registrazione. Dura un minuto e 37 secondi. E mette la pelle d’oca, sentire la voce di Farah supplicare aiuto. «Finché ubbidisco stanno buoni, ma se mi scoprono… Ti prego!».
L’audio è nelle mani degli investigatori ma anche dei funzionari dell’ambasciata pachistana. E lo stesso vale per i messaggi spediti dalla diciannovenne alle amiche italiane. Sul cellulare di una studentessa, scorrono chat cariche d’angoscia. Farah scrive: «Mi hanno picchiata e tenuta legata per otto ore per farmi fare l’aborto». E torna a lanciare un appello: «Qualcuno con una certa autorità mi venga a prendere in casa, perché qua la polizia locale li paghi 15 euro e loro ti lasciano pure morire». La diciannovenne ha fretta che la vengano a salvare, ma anche tanta paura: «Tutto deve essere fatto alla svelta, se no stavolta mio padre uccide pure me», scrive. Tra i messaggi inviati, anche un lungo sfogo: «Mi fa così male sapere che i genitori per cui sono tornata di nuovo in Pakistan, fidandomi di loro, mi hanno fatto questo. E quando chiedo perché mi hanno fatto questo, perché hanno tolto la vita al mio bimbo, mi dicono che questo non è nulla rispetto a quello che ho fatto io». La sua colpa? «Che anche io ho tolto la vita al loro rispetto in società». È soltanto questo, il problema: la famiglia si sente umiliata dal fatto che la ragazza sia rimasta incinta, per di più di un coetaneo con la cittadinanza italiana e di religione cristiana. «Ogni volta che mi viene da piangere perché mi ricordo tutto quanto scrive ancora - mi insultano dandomi della puttana. Ti giuro, non ce la faccio a stare in mezzo a loro in questo modo. Mi tengono qua in Pakistan perché sanno che qua nessuno mi aiuterebbe. Sanno che, come hanno pagato per il mio aborto, possono pagare chiunque…».
L’assessore: «È prigioniera»
Una storia che deve essere ancora indagata fino in fondo, anche se l’assessore ai servizi sociali Stefano Bertacco conferma che, stando alle verifiche svolte dal Comune, «non c’è nessuna volontà da parte della famiglia di lasciare libera la ragazza alla quale, a quanto ci è stato riferito, sono stati sottratti i documenti ed è costantemente sorvegliata dalla madre e dalla sorella».
Come per Sana Cheema, la venticinquenne di Brescia strangolata dal padre perché voleva sposare un italiano, anche qui l’unica cosa certa sono questi messaggi arrivati agli amici. Ed è partendo da essi, che ieri la Farnesina ha chiesto all’ambasciata d’Italia ad Islamabad di attivarsi per le opportune (e urgenti) verifiche. «Se fosse tutto vero - spiegano dal ministero degli Esteri - si tratterebbe di un episodio gravissimo».
L’amica: «Era costretta a mentire»
Che i rapporti con i genitori siano complicati è un dato di fatto. «Si nascondeva da loro», racconta Anais, una delle sue migliori
amiche. «La mamma e il papà non volevano che uscisse di casa tranne che per andare a scuola. Dicevano che le sue coetanee avrebbero potuto influenzarla, spingendola a fare cose “non giuste”, come fumare o bere. E quindi lei era costretta a mentire e, per incontrarmi nel pomeriggio, raccontava di andare in centro a studiare».
Dalle testimonianze, emerge soprattutto la figura del padre, che gestisce un negozio in città. «È molto severo - spiega Anais - ma Fatah non mi ha mai detto di essere stata picchiata da lui».
La denuncia per maltrattamenti
La diciannovenne viveva a Verona dal 2008 e fino a febbraio frequentava un istituto professionale a due passi dal centro. Nell’autunno scorso, la Squadra mobile aveva ricevuto una segnalazione: la ragazza era tenuta in casa contro la sua volontà. Intervenuti per liberarla, il padre-padrone era stato denunciato per maltrattamenti e presto dovrà risponderne in tribunale. Lei, invece, era stata accolta in una struttura protetta dov’era rimasta fino al 9 gennaio, quando aveva comunicato agli operatori di essersi riconciliata con i genitori e quindi era tornata a vivere con loro. In questa storia, le date sono importanti: all’inizio dell’anno, era già entrata nel secondo mese di gravidanza e il bimbo che portava in grembo avrebbe dovuto nascere ad agosto. Credeva davvero che la sua famiglia fosse pronta ad accettare quel figlio frutto dell’amore di un coetaneo italiano. Non sospettava che, appena un mese dopo, i suoi stessi familiari l’avrebbero trascinata fino all’inferno.
Mi hanno pestata e tenuta legata per otto ore per farmi abortire. Non so quanto ci vorrà ai miei per scoprire che ho questo telefono e picchiarmi