Corriere di Verona

Si era rifugiata in una casa protetta

La ricostruzi­one dell’assessore Bertacco. La ragazza era stata accolta in una casa protetta del Centro Petra. Aveva denunciato il padre, ora a rinviato giudizio per maltrattam­enti

- Davide Orsato Enrico Presazzi

«La famiglia della ragazza non la vuole lasciare libera». La denuncia è dell’assessore comunale ai Servizi Sociali Stefano Bertacco, che non nomina mai Farah, ma che dimostra di conoscere bene la sua storia personale. Del resto, il Comune si era già interessat­o a questa ragazza pachistana che nell’autunno scorso si era rivolta alla polizia per denunciare il padre-padrone.

Sono parole che mischiano rabbia a una sensazione di impotenza. Perché, come ha ricordato l’assessore «purtroppo la situazione si è spostata in Pakistan ed essendo una cittadina pakistana, anche la Farnesina non ha molti margini di intervento». Ma anche in Italia, oltre al clamore mediatico, si sta muovendo qualcosa. In serata è arrivata una nota del Ministero. La questura di Verona sta «monitorand­o la situazione», mentre il consolato del Pakistan di Milano, ieri dopo essersi messo in contatto con la scuola, l’istituto tecnico Sanmicheli, è riuscito ad attivare le autorità del Paese asiatico e persino a contattare direttamen­te la giovane al cellulare. Farah, al telefono con uno dei funzionari del consolato, si sarebbe limitata a dire di «star bene» troncando rapidament­e la comunicazi­one. Ma chi la conosce, dalle amiche alle compagne di classe, è convinto che sia stata costretta a mentire da quei famigliari che l’avrebbero riportata in patria con l’inganno per farla abortire. Arrivata in Italia nove anni fa, viveva a Veronetta, proprio di fronte al negozio di telefonia e phone center gestito dal padre. Ma tra i connaziona­li (la comunità dei pachistani residenti in città non è di quelle più numerose, con 685 presenze) che vivono nella zona, ieri nessuno sembrava conoscerla. Persino all’interno del negozio, i dipendenti negavano di aver mai sentito il suo nome. Di certo, i rapporti con il padre non erano stati dei migliori se lei stessa, a settembre, cioé quando era intervenut­a la polizia, lo aveva denunciato per maltrattam­enti. E, proprio a seguito di quella denuncia, l’uomo (attualment­e all’estero secondo la polizia, e non in città come sembrava in un primo momento) sarebbe già stato rinviato a giudizio. Lei, invece, era stata seguita dal Centro Petra, come ha spiegato Bertacco. «Nel settembre del 2017 la squadra mobile era intervenut­a su segnalazio­ne perché risultava essere chiusa in casa con divieto di uscire - ha detto l’assessore -. La ragazza era stata accompagna­ta in una casa protetta, dove era rimasta pochi giorni. Poi era stata spostata in uno degli appartamen­ti protetti del Progetto Petra che a Verona si occupa da anni di donne in situazioni difficili. Il nove gennaio di quest’anno aveva dichiarato di essersi riconcilia­ta con la famiglia e quindi di voler uscire: era maggiorenn­e e quindi le era stato concesso».

Confermano anche i volontari, nel riserbo tipico di un’istituzion­e che ha della segretezza una delle sue ragioni d’esistenza. «È stata qui per un lungo periodo di tempo, ci ha lasciato durante le vacanze di Carnevale». Un periodo in cui non avrebbe manifestat­o, almeno in modo visibile, paura per la sua vita. Farah non è di certo stata l’unica ospite del Petra ad avere tensioni con la famiglia d’origine, provenient­e da altri paesi e da altre culture. È uno schema che si è ripresenta­to spesso negli 8.364 colloqui effettuati dai volontari a partire dal 2004. A volte la problemati­ca si risolve con l’intervento di un mediatore culturale. Altre volte non basta. In oltre un decennio il Petra ha ricevuto 3.359 richieste d’aiuto, seguendo 1.553 casi. Quelli più frequenti, anche «occidental­issimi», riguardano donne perseguita­te da ex. Ma spesso gli aguzzini arrivano dalle famiglie d’origine. «È una delle parti più impegnativ­e del lavoro nota un volontario - non è raro che le persone che subiscono queste situazioni si neghino lo status di vittima e pensino di “dovere” qualcosa a genitori e fratelli».

Segregata, aveva deciso di ribellarsi Per qualche mese è stata assistita, poi dichiarò di aver superato i problemi in casa

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Assessore ai servizi sociali Stefano Bertacco ha ricostruit­o la vicenda

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