Parla Elia Viviani «Gioie e cartoline di un Giro da favola»
«Sono rientrato a Oppeano VERONA di notte. Dormivano tutti ma vedevo i fiocchi ciclamino fuori dalle case. Un orgoglio: adesso, come dopo Rio, farò una bevuta col paese per festeggiare». Elia Viviani è mister Ciclamino, colore della maglia che s’è cucito addosso al Giro 101, il Giro che cambia la percezione dell’Italia del ciclismo verso il velocista veronese, 29 anni, freccia azzurra all’arco della Quick Step.
Ci raccontava Massimo Strazzer, prima di lei l’unico veronese in Ciclamino al Giro, correva il 2001, che prendersi la classifica a punti comporta uno stress fisico e mentale enorme: è così, Viviani? «E’ così. Racconto un episodio. Sullo Zoncolan sono famose
le spinte dei tifosi. Quest’anno le ho dovute rifiutare categoricamente perché anche solo una penalizzazione di dieci punti poteva costarmi cara. Facevo no con la testa già cento metri prima e loro non capivano s’era per fastidio o cosa. In realtà avevo solo la Ciclamino da difendere». E l’ha difesa bene…
«Avere tutto sotto controllo non è facile. Devi programmare ogni dettaglio. L’ultima volata di Roma l’ho persa perché il giorno prima sono andato in fuga. Mi spiego. Dovevo scegliere. O la volata finale a Roma o la sicurezza di vincere la Ciclamino. Ho scelto la seconda. Su Roma, così, è uscito il logorio di tutti quei giorni spesi a ragionare sulla
classifica a punti». Quattro vittorie di tappa: le ripercorriamo?
«La più sentita a Nervesa della Battaglia, qui in Veneto. Il giorno prima ero andato male, eravamo in Italia da un pezzo e non avevo ancora vinto, era la 13esima e se non avessi risposto presente poteva essere un segnale di cedimento. Quella d’Iseo, bella perché inaspettata: eravamo partiti per difenderci e non far guadagnare punti a Bennett, poi abbiamo colto l’occasione. Le prime due in Israele, invece, fondamentali per rompere il ghiaccio e togliermi pressione dalle spalle». Ne aveva tanta, anche perché l’intera Quick Step lavora-
va per lei.
«Quando hai una squadra che aspetta il tuo risultato vuoi vincere per te e per loro. È un tipo di responsabilità che mi piace prendere. Penso di aver imparato a non pensare troppo quando sono sotto pressione. Merito anche delle telefonate con la mia fidanzata Elena (Cecchini, ciclista anche lei, ndr)».
Chi era a Roma per il finale dice che in questo momento è Viviani il ciclista italiano più amato: che ne dice?
«Mi sono accorto ch’è cambiata la percezione della gente, sì. L’oro a Rio aveva già avuto il suo impatto. Al Giro poi il fatto che i nostri uomini di classifica non siano andati benissimo ha fatto sì che la gente
prendesse me come riferimento. Prima ero Viviani, “quello che ha vinto le Olimpiadi su pista”. Mancava qualcosa e quel qualcosa me l’ha dato il Giro».
Il ct Cassani ha detto al «Corriere di Verona» che il suo obiettivo per il 2019 potrebbe essere vincere tappe a Tour e Vuelta: conferma? «Ovvio che adesso ho cinque tappe al Giro (la prima
nel 2015 a Genova, ndr) e sì, a Tour e Vuelta del 2019 mi piacerebbe vincere. Anche perché per quest’anno il programma è quasi deciso: al Tour non vado, la Vuelta al 90 per cento la toglieremo dal programma perché nel percorso ci sono solo due occasioni per i velocisti: penso che
il team deciderà di portare gli scalatori».
Torniamo al Giro. Le due vittorie a Tel Aviv ed Eilat, nella prima volta della corsa rosa in Israele, sono entrate nella storia. La comunità israeliana di Verona l’ha invitata in sinagoga…
«La partenza in Israele mi ha stupito. Tante volte capita di correre in Paesi nuovi, vedi Abu Dhabi, e si sente che la gente non reagisce, che manca cultura del ciclismo. In Israele, al contrario, c’era tantissima gente. Sul podio vedevo questa distesa, pareva di essere a un mega-concerto. Non avendo idoli, quando mi hanno visto vincere hanno preso a trattarmi come fossi un dio del ciclismo. Mi spiace solo una cosa...». Quale?
«Non aver potuto girare di più quei luoghi storici. Solo la camminata dall’hotel al Muro del Pianto. Ch’è comunque una cartolina splendida». E le altre, di cartoline?
«Aver portato sul podio Giacomo, uno dei due gemellini di Michele Scarponi, è una cosa che mi rimarrà per sempre. Erano lì sotto il palco col cappellino da ciclisti che giocavano, felicissimi di essere a Tel Aviv. Ero amico di “Scarpa”, c’era un legame fortissimo, sapevo che lui li aveva portati spesso sul podio: mi è venuto come gesto naturale». Ultima: un Giro che passasse di nuovo dall’Arena?
«Egoisticamente, sogno un arrivo in Piazza Bra con premiazione dentro l’Arena. C’ero, al Giro 2010, quando Basso finì in Arena in rosa: era il mio primo anno da professionista e fu uno degli scenari più belli che abbia mai visto».