Corriere di Verona

«Noi in ritardo? A ogni riunione debito più alto»

Parla il manager che ha presentato l’offerta di De Shaw: «La nostra era una proposta seria»

- di C. Trabona

Luca Longaretti è il VERONA consulente-manager (con carriera nell’industria dolciaria) che doveva prendere in mano Melegatti per conto del fondo newyorches­e De Shaw se i giudici avessero accettato la proposta concordata­ria arrivata in extremis (poco più di 20 milioni di impegno a fronte di 52 milioni di debiti accertati).

Longaretti, siete arrivati con l’offerta fuori tempo massimo. Perché?

«Siamo stati richiamati ad aprile dalla proprietà, dopo che era andato male l’ultimo tentativo (Hausbrandt, ndr). È stato molto complicato definire un piano, anche perché di volta in volta i numeri cambiavano. Riunioni su riunioni,

conference call, e continui aggiorname­nti sull’esposizion­e debitoria della società. Si scopriva sempre qualcosa di nuovo. Un fondo d’investimen­to deve definire poi ogni dettaglio per poter deliberare un investimen­to, e c’era da costruire un’operazione che dovesse ripagare in parte i creditori e al tempo stesso remunerare l’investimen­to». Lei dice «richiamati». Perché, aveva già tentato?

«Se è per questo, nel 2016 io avevo presentato un’offerta vincolante per Melegatti, insieme a un imprendito­re che intendeva diversific­are le sue attività. Un socio di minoranza (la parte che fa capo ai fratelli Turco, ndr) esercitò in quel caso il diritto di prelazione, sbarrandoc­i quindi la strada. Poi però non raggiunse l’accordo con gli altri azionisti (Emanuela Perazzoli & C.), con il risultato che nessuno rilevò alla fine nulla. D’altronde, dell’alto tasso di litigiosit­à all’interno della società voi giornalist­i avete scritto più volte». E con il fondo De Shaw?

«A fine ottobre abbiamo presentato manifestaz­ione d’interesse. Eravamo alla vigilia

della domanda di concordato». Però il vostro nome non è mai emerso per lunghi mesi.

«Diciamo che siamo stati accantonat­i a favore di altri. Forse perché avevamo detto no ad alcune richieste». Può fare un esempio?

«Tramontato il tentativo del fondo Abalone, la proprietà verso la fine di gennaio ci chiese di riformular­e una proposta che comprendes­se la campagna produttiva di Pasqua. Ci siamo rifiutati, perché significav­a buttar via soldi. Cosa che va contro i principi di un concordato». Lei e il fondo americano ci

riproveret­e?

«Non sono in grado di dare una risposta in questo momento. Posso solo dire che abbiamo lavorato di notte per mettere a punto un serio piano di salvataggi­o. Volevamo tenere unita l’azienda, mantenere l’occupazion­e e, anzi, rilanciare con 30-40 posti nuovi di lavoro grazie all’avvio dello stabilimen­to di San Martino Buon Albergo. Un vero peccato. Ora temo uno spezzatino, con parti separate dell’azienda in vendita».

Si dice che proprio l’impianto di San Martino sia all’origine dell’avvitament­o. «È vero. Sono stati commessi gravi errori di gestione industrial­e e finanziari­a. L’azienda usava il proprio capitale circolante, si è ritrovata a corto di liquidità e pagava a rilento coloro che l’impianto lo stavano costruendo. Questo si è riflesso sui tempi di realizzazi­one dello stesso stabilimen­to. E a cascata, hanno causato la rottura dell’intesa per la produzione di croissant con un grande operatore». Cioé Ferrero. Si dice che l’avreste riportato.

«Non posso dire molto in proposito, se non che c’erano delle buone chances per recuperare il contratto-chiave, quello cioé che avrebbe rilanciato Melegatti nel business dei prodotti dolciari continuati­vi».

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