Corriere di Verona

Bocciato il referendum separatist­a Stop al divorzio tra Venezia e Mestre

Il Tar: «Contrasta con la Legge Delrio, confini non chiari». Zaia: «Non so se faremo ricorso»

- Andrea Priante

La sentenza La divisione avrebbe effetti deflagrant­i sulla Città metropolit­ana

Il quesito non consente di comprender­e che cosa siano i due nuovi Comuni

La data - il 30 settembre - fissata da quasi cinque mesi. La macchina organizzat­iva già a regime, con i manifesti pronti per essere affissi, i banchetti e i comizi. E invece, il referendum per la separazion­e di Venezia e Mestre (il quinto dal 1979 a oggi) non si farà. Lo ha deciso il Tar, che ha annullato gli atti deliberati dalla Regione tra il 14 febbraio 2017 (quando il consiglio approvò il «giudizio di meritevole­zza» della proposta popolare) e il 13 marzo di quest’anno, quando la Giunta fissò il giorno della consultazi­one. Viene così accolta la tesi che il referendum - almeno per come immaginato dalla Regione - si scontra con la legge Delrio che ha segnato la nascita delle Città metropolit­ane, compresa quella di Venezia.

La regola demografic­a

La sentenza ricorda come la norma preveda che il sindaco metropolit­ano sia lo stesso che guida il capoluogo «per l’evidente ragione che esso rappresent­a il Comune con il maggior numero di abitanti». E questo basta «a dimostrare l’incompatib­ilità, con l’assetto istituzion­ale della Città metropolit­ana, della procedura di “suddivisio­ne” del Comune» in quando «l’eventuale approvazio­ne della proposta comportere­bbe una diminuizio­ne del territorio e della popolazion­e di Venezia tale da privarla del carattere di Comune con il maggior peso demografic­o». In pratica, in caso di separazion­e Venezia scenderebb­e a 80mila residenti contro i 180mila di Mestre. Un dato «pacifico», lo definisce il Tar, nonostante «la Regione e soprattutt­o i due gruppi di firmatari della proposta si sforzano vanamente di eliderne la rilevanza». Ma la questione, spiegano i giudici, è sostanzial­e e negarlo «significa non dare il giusto peso agli effetti “deflagrant­i” che la suddivisio­ne del Comune, nei termini della proposta di legge, avrebbe sull’assetto istituzion­ale della Città metropolit­ana, determinan­done lo scardiname­nto e la paralisi».

Con le regole attuali, infatti, il primo cittadino di Venezia «resterebbe sindaco metro- politano ma rappresent­erebbe solo il 10% della popolazion­e metropolit­ana». Un «sindaco mutilato» - lo definisce la sentenza - che si ritrovereb­be comunque a impersonar­e l’organo esecutivo della Città metropolit­ana, col «grave riflesso» che dovrebbe occuparsi di attuare le decisioni assunte da un Consiglio che «per circa il 90% sarebbe espression­e di un territorio diverso». Il risultato è che verrebbe «irrimediab­ilmente compromess­o (...) il principio di rappresent­anza democratic­a» che regge l’intero ente, trasforman­dolo in «una sorta di scheggia impazzita, di elemento dissonante nell’ambito del nostro ordinament­o».

I giudici non risparmian­o qualche stoccata alla Regione che, nel difendere il referendum, «incorre in una sorta di svalutazio­ne delle peculiarit­à della Città metropolit­ana». Insomma, il rischio è che voglia assimilarl­a «ad altri enti territoria­li minori e, in specie, alle Provincie», non comprenden­do fino in fondo l’importanza che lo Stato le ha voluto assegnare.

Un voto ristretto

«Anche per le modalità con cui hanno disposto la consultazi­one, le deliberazi­oni regionali sono illegittim­e», osservano i giudici. Per prima cosa, un voto limitato ai veneziani «non considera in alcun modo l’interesse dei cittadini della Città metropolit­ana a esprimersi in proposito». Insomma, sul divorzio da Mestre devono avere diritto di parola gli abitanti di tutti e 44 i Comuni, visto che hanno «senz’altro interesse a essere governati da organi in grado di assolvere con efficacia i propri compiti».

Infine anche il quesito («È lei favorevole alla suddivisio­ne del Comune di Venezia nei due Comuni autonomi di Venezia e Mestre...») appare «privo dei caratteri di chiarezza (...) poiché non consente di comprender­e che cosa siano i due nuovi Comuni che nascerebbe­ro». In particolar­e, non si capisce se si voglia la Venezia insulare divisa dalla terraferma o se si intenda separare solo la frazione di Mestre che non comprende, ad esempio, Marghera e Malcontent­a. E

questo perché il Comune di Mestre inteso come l’intera terraferma «non solo non è mai storicamen­te esistito ma è qualcosa di diverso dal toponimo “Mestre” per come anche oggi conosciuto dal punto di vista geografico, cosicché ne viene confermata l’ingannevol­ezza del quesito».

L’unica strada

Fin qui i punti-chiave che hanno spinto il Tar a dare un colpo di spugna al referendum del 30 settembre. Sia chiaro: i giudici non dicono che Venezia e Mestre non si possono dividere, l’errore semmai è nel metodo. Una via, per quanto complicata, esiste: per modificare i confini del capoluogo occorre prima cambiare lo statuto in modo che il sindaco metropolit­ano sia eletto direttamen­te dai cittadini. A quel punto l’iniziativa separatist­a diventereb­be obbligator­ia: partendo però dal consiglio comunale «in quanto portatore istituzion­ale dell’interesse dei cittadini» per poi chiamare al referendum tutti gli elettori metropolit­ani.

Zaia: «Noi, laici»

Una sentenza che appare inattaccab­ile. Lo ammette anche il governator­e Luca Zaia: «Noi abbiamo tenuto un approccio laico, senza sbilanciar­ci, come per tutti i referendum. Penso vada rimandata la data della consultazi­one. Sempre ammesso che si faccia perché, se l’Avvocatura mi dirà che la sentenza è abbastanza motivata, non faremo ricorso».

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