Bocciato il referendum separatista Stop al divorzio tra Venezia e Mestre
Il Tar: «Contrasta con la Legge Delrio, confini non chiari». Zaia: «Non so se faremo ricorso»
La sentenza La divisione avrebbe effetti deflagranti sulla Città metropolitana
Il quesito non consente di comprendere che cosa siano i due nuovi Comuni
La data - il 30 settembre - fissata da quasi cinque mesi. La macchina organizzativa già a regime, con i manifesti pronti per essere affissi, i banchetti e i comizi. E invece, il referendum per la separazione di Venezia e Mestre (il quinto dal 1979 a oggi) non si farà. Lo ha deciso il Tar, che ha annullato gli atti deliberati dalla Regione tra il 14 febbraio 2017 (quando il consiglio approvò il «giudizio di meritevolezza» della proposta popolare) e il 13 marzo di quest’anno, quando la Giunta fissò il giorno della consultazione. Viene così accolta la tesi che il referendum - almeno per come immaginato dalla Regione - si scontra con la legge Delrio che ha segnato la nascita delle Città metropolitane, compresa quella di Venezia.
La regola demografica
La sentenza ricorda come la norma preveda che il sindaco metropolitano sia lo stesso che guida il capoluogo «per l’evidente ragione che esso rappresenta il Comune con il maggior numero di abitanti». E questo basta «a dimostrare l’incompatibilità, con l’assetto istituzionale della Città metropolitana, della procedura di “suddivisione” del Comune» in quando «l’eventuale approvazione della proposta comporterebbe una diminuizione del territorio e della popolazione di Venezia tale da privarla del carattere di Comune con il maggior peso demografico». In pratica, in caso di separazione Venezia scenderebbe a 80mila residenti contro i 180mila di Mestre. Un dato «pacifico», lo definisce il Tar, nonostante «la Regione e soprattutto i due gruppi di firmatari della proposta si sforzano vanamente di eliderne la rilevanza». Ma la questione, spiegano i giudici, è sostanziale e negarlo «significa non dare il giusto peso agli effetti “deflagranti” che la suddivisione del Comune, nei termini della proposta di legge, avrebbe sull’assetto istituzionale della Città metropolitana, determinandone lo scardinamento e la paralisi».
Con le regole attuali, infatti, il primo cittadino di Venezia «resterebbe sindaco metro- politano ma rappresenterebbe solo il 10% della popolazione metropolitana». Un «sindaco mutilato» - lo definisce la sentenza - che si ritroverebbe comunque a impersonare l’organo esecutivo della Città metropolitana, col «grave riflesso» che dovrebbe occuparsi di attuare le decisioni assunte da un Consiglio che «per circa il 90% sarebbe espressione di un territorio diverso». Il risultato è che verrebbe «irrimediabilmente compromesso (...) il principio di rappresentanza democratica» che regge l’intero ente, trasformandolo in «una sorta di scheggia impazzita, di elemento dissonante nell’ambito del nostro ordinamento».
I giudici non risparmiano qualche stoccata alla Regione che, nel difendere il referendum, «incorre in una sorta di svalutazione delle peculiarità della Città metropolitana». Insomma, il rischio è che voglia assimilarla «ad altri enti territoriali minori e, in specie, alle Provincie», non comprendendo fino in fondo l’importanza che lo Stato le ha voluto assegnare.
Un voto ristretto
«Anche per le modalità con cui hanno disposto la consultazione, le deliberazioni regionali sono illegittime», osservano i giudici. Per prima cosa, un voto limitato ai veneziani «non considera in alcun modo l’interesse dei cittadini della Città metropolitana a esprimersi in proposito». Insomma, sul divorzio da Mestre devono avere diritto di parola gli abitanti di tutti e 44 i Comuni, visto che hanno «senz’altro interesse a essere governati da organi in grado di assolvere con efficacia i propri compiti».
Infine anche il quesito («È lei favorevole alla suddivisione del Comune di Venezia nei due Comuni autonomi di Venezia e Mestre...») appare «privo dei caratteri di chiarezza (...) poiché non consente di comprendere che cosa siano i due nuovi Comuni che nascerebbero». In particolare, non si capisce se si voglia la Venezia insulare divisa dalla terraferma o se si intenda separare solo la frazione di Mestre che non comprende, ad esempio, Marghera e Malcontenta. E
questo perché il Comune di Mestre inteso come l’intera terraferma «non solo non è mai storicamente esistito ma è qualcosa di diverso dal toponimo “Mestre” per come anche oggi conosciuto dal punto di vista geografico, cosicché ne viene confermata l’ingannevolezza del quesito».
L’unica strada
Fin qui i punti-chiave che hanno spinto il Tar a dare un colpo di spugna al referendum del 30 settembre. Sia chiaro: i giudici non dicono che Venezia e Mestre non si possono dividere, l’errore semmai è nel metodo. Una via, per quanto complicata, esiste: per modificare i confini del capoluogo occorre prima cambiare lo statuto in modo che il sindaco metropolitano sia eletto direttamente dai cittadini. A quel punto l’iniziativa separatista diventerebbe obbligatoria: partendo però dal consiglio comunale «in quanto portatore istituzionale dell’interesse dei cittadini» per poi chiamare al referendum tutti gli elettori metropolitani.
Zaia: «Noi, laici»
Una sentenza che appare inattaccabile. Lo ammette anche il governatore Luca Zaia: «Noi abbiamo tenuto un approccio laico, senza sbilanciarci, come per tutti i referendum. Penso vada rimandata la data della consultazione. Sempre ammesso che si faccia perché, se l’Avvocatura mi dirà che la sentenza è abbastanza motivata, non faremo ricorso».