EXPORT, COSA SERVE AL NORDEST
Per carità, i dati rimangono positivi. Nel primo semestre del 2018 l’export ha continuato a crescere. E il Nordest ha segnato un lusinghiero più 5,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2017, molto meglio della media nazionale (più 3,7) e anche del Nordovest (più 4). Eppure c’è già chi ha suonato il campanello d’allarme. Agostino Bonomo, presidente di Confartigianato Veneto, ha messo in evidenza una serie di ombre che oscurano le luci. In effetti, l’aumento delle vendite all’estero del 3,3 registrato dal Veneto lascia l’amaro in bocca se confrontato con il più 4 del Trentino Alto Adige, il più 5,9 dell’Emilia Romagna e addirittura il più 17,5 del Friuli Venezia Giulia. «Il Veneto delle piccole e media imprese» ha sottolineato Bonomo «vanta un’antica e quasi proverbiale vocazione alle esportazioni. Adesso proprio i piccoli sono i primi ad avvertire il rallentamento della crescita internazionale». Dall’Emilia Romagna, dove peraltro Motor Valley e Packaging Valley stanno volando, gli ha fatto eco Pietro Ferrari, presidente della Confindustria regionale. Andando oltre la contingenza dei numeri, Ferrari ha ricordato a tutti, governo in testa, che i maggiori mercati esteri delle imprese nordestine sono Germania, Francia e Stati Uniti. Come dire che mantenere buone relazioni con Emmanuel Macron e Angela Merkel conta, eccome. Nella speranza che, da parte sua, Donald Trump non scateni una guerra commerciale con il mondo intero.
La preoccupazione è evidente: il motore dell’export viaggia su ingranaggi delicati e guai a incepparli. Gli anni della Grande Crisi, alla fine, sono stati comunque utili. Per necessità o per virtù, migliaia di aziende di tutti i settori, anche con pochi milioni di euro di fatturato, sono state costrette a cambiare pelle e ad attrezzarsi per la competizione globale. Il risultato è stato lo sbarco ai cinque continenti o direttamente con i propri prodotti o attraverso l’aggancio alle filiere dei colossi dell’automotive, degli elettrodomestici, della chimica-farmaceutica, della moda. Di questo straordinario dinamismo si parlerà oggi pomeriggio a Padova, nel corso di un evento organizzato dal Corriere Imprese. Titolo (evocativo): «Piccole, medie, internazionali». Ovvero, «le Pmi alla sfida della crescita senza confini». E attenzione, non c’è solamente l’export. Secondo uno studio dell’Ice (Istituto per il commercio estero), 2.092 imprese del Veneto, 1.733 dell’Emilia Romagna e 388 del Trentino Alto Adige hanno acquisito partecipazioni al di fuori dei confini italiani. In totale le imprese estere partecipate da capitale nordestino sono oltre 12 mila, fatturano 75 miliardi e danno lavoro a 421 mila persone. Insomma, i processi di internazionalizzazione non vanno assolutamente fermati. Anzi, occorrerebbe mettere in campo tutti gli strumenti per dare loro ulteriore forza. Per cominciare, si potrebbe smetterla di alimentare l’incertezza sui contenuti della legge di Bilancio e, in generale, sulle scelte riguardanti i conti pubblici. Portare il made in Italy in giro per il mondo richiede forti investimenti e per questo con le reazioni dei mercati finanziari e l’innalzamento dello spread gli imprenditori fanno i conti ogni giorno. In senso letterale, sotto forma di costi aggiuntivi per procurarsi le risorse di cui hanno bisogno. Continuare a sparare sull’Europa e sui cosiddetti signori del rating certo non è di aiuto per chi quotidianamente è a caccia di commesse agli angoli del pianeta. Poi c’è il cuore della questione. Gli imprenditori, specie nel nuovo triangolo industriale, attendono con evidente impazienza provvedimenti concreti per la crescita e in particolare per favorire l’innovazione tecnologica e le assunzioni di figure altamente qualificate. Il super e l’iperammortamento previsti dal piano Industria 4.0 andavano esattamente nella direzione di aumentare la competitività del sistema Italia in chiave internazionale. Non sarebbe il caso di ricominciare da qui?