GABRIEL E I SUOI NUOVI GENITORI di Alice Cristiano
Manuel Recchia e Giulia Alzetta sono diventati genitori dopo una telefonata, che li avvertiva dell’arrivo di Gabriel.
«Quando ci hanno detto che Gabriel era arrivato era la festa del papà. E nevicava. Ero talmente agitato che non ricordo altro». Parla Manuel Recchia, 42 anni, che è diventato genitore, insieme a Giulia Alzetta, che di anni ne ha 36, una sera di aprile, pochi mesi fa, grazie ad una telefonata. Dall’altro capo del filo l’ associazione cui si erano rivolti per adottare: loro figlio c’era, aveva due anni e mezzo e li aspettava a Cochabamba, una città tra le montagne della Bolivia. «Ci hanno fatto vedere una foto», racconta Giulia. «Lui magro magro, seduto sul lettino dell’infermeria del suo istituto. Era tutto pannolino e scarpe da ginnastica».
Adesso Gabriel è seduto sul pavimento della sua nuova casa piena di libri e finestre, poco fuori Verona. Gli occhioni neri, la pella scura. Lui che è stato abbandonato ancora in fasce, che per due anni e mezzo ha conosciuto solo la vita in istituto, in tre mesi ha trovato due genitori, quattro nonni, due bisnonni. E molta ciccia in più sulle guance. Un’altra vita in pochi giorni. Per lui e per loro. «Quando siamo andati a prenderlo ci hanno fatti entrare in una stanza microscopica, c’era un sacco di gente. Assistente sociale, psicologo, avvocato, interprete. All’ improvviso è apparsa una donna con in braccio un bambino, senza che ci avessero detto nulla. Lo avevano pettinato con la riga da una parte, sembrava un Narcos», ride Giulia. E poi parla di quella cosa che li ha bloccati, gambe e braccia. «Sarà stato il fuso orario, la mancanza di sonno, forse l’emozione. Fatto sta che siamo rimasti immobili. Ad un certo punto hanno dovuto dirci: ‘Ehi, è vostro figlio, potete prenderlo in braccio!’».
Mentre raccontano, Gabriel gioca con tutto quello che riesce a scagliare sul pavimento, chiama mamma, papà, cerca i nonni, ti prende per mano, non sta fermo un attimo. E pensare che fino ad una manciata di giorni fa non parlava, si muoveva a fatica e sorrideva quasi mai. Un bambino adulto, e un po’ stanco. «Prima di portarlo a casa siamo stati là a Cochabamba con lui per un mese», racconta Giulia. «Quello che mi ha impressionata è che se ne stava là, seduto, a farsi l’aerosol da solo. Si teneva la mascherina premuta contro il viso, senza che nessuno lo aiutasse o gli dicesse di stare fermo. A due anni». E Manuel aggiunge. «Camminava il minimo indispensabile e poi subito si sedeva. Erano tutti così, i bambini, non avevano stimoli e reagivano di conseguenza».
«Probabilmente adesso sta recuperando il tempo perduto», dice Giulia. E ridono entrambi, mentre Gabriel scaraventa l’ennesima macchinina sotto il divano. E lo stanno recuperando anche loro, il tempo. Loro che per riuscire ad adottare sono dovuti passare attraverso a quasi cinque anni di carte, di colloqui, («ci interrogavano separatamente, come fanno con i complici di un reato», dicono scherzando),
Giulia La mia gravidanza è durata 4 anni
di sentenze e ancora di carte, carte e carte. «Mi sentivo sempre sotto accusa», dice Manuel. «È un percorso difficile -concordano- e se riesci a uscirne sia come futuro genitore che come coppia significa che sei pronto ad adottare davvero». E se gli chiedi se sia destabilizzante diventare papà e mamma da un momento all’altro, senza una gravidanza in mezzo a prepararti, Giulia sbarra gli occhi e ride. «Da un momento all’altro? La nostra gravidanza è durata più di quattro anni!». E se si aggiunge che prima dei quattro anni ci sono stati i tentativi di diventare genitori naturalmente, il percorso si allunga ancora. «Sulla carta non avevamo problemi -racconta Giuliama nei fatti non riuscivo a rimanere incinta. Così abbiamo tentato la via dell’inseminazione ma non faceva per me, mi sentivo una cavia di laboratorio. E allora abbiamo deciso di provare ad adottare». E adesso che Gabriel è arrivato e le sue prime parole le ha dette in italiano, ci sono le preoccupazioni normali, quelle di tutti i genitori. E poi qualcuna in più. «È un bambino che sta con tutti ma che fa fatica a stringere un legame. Per costruirlo ci vorrà tempo». Quanto? «Ci hanno spiegato che la fiducia si fonda sulle ricorrenze. Festeggeremo il suo compleanno insieme la prima volta e poi anche l’anno dopo. Quando vedrà che le cose ritornano e non scompaiono inzierà a fidarsi e a costruire un legame». E sul futuro, poi, chissà. Se lui volesse un giorno incontrare i suoi genitori naturali? «Sappiamo chi sono, i nomi ce li hanno dati. Quando e se lo vorrà sarà libero di andare a cercarli».