Corriere di Verona

«PIANETA CALDO, URGE LA SVOLTA»

Quali sfide ci aspettano nell’anno appena iniziato? Il Corriere del Veneto ha pensato di rispondere a questa domanda con una serie di interviste a personaggi di primo piano del mondo economico, scientific­o e politico. Lo scopo è di mettere nero su bianco

- di Michela Nicolussi Moro

Nicola Dal Ferro, 36 anni vicentino, è ricercator­e al Dafnae, all’Ateneo padovano. «Lo smog ha surriscald­ato il pianeta, urge una svolta», dice.

Ha vinto un finanziame­nto Prin (Progetto di ricerca di interesse nazionale) insieme al suo capo Dipartimen­to, Maurizio Borin, per lo sviluppo di un impianto di fitodepura­zione a parete in grado di depurare le acque grigie in contesti urbani e rurali. Tradotto: ad Agripolis, campus dell’Università di Padova, è stata istallata una parete di piante per ripulire le acque provenient­i dalla mensa, quindi dall’attività di ristorazio­ne. Esempio pratico di «infrastrut­ture verdi», che comprendon­o tetti di piante capaci di assorbire la pioggia e quindi di contrastar­e allagament­i e alluvioni, e rappresent­ano una delle nuove frontiere per la protezione dell’ambiente. Tra gli scienziati in prima linea a studiare e cercare di ripristina­re un ambiente martoriato dall’uomo, che inquinando­lo ha surriscald­ato il pianeta causando i cambiament­i climatici ormai all’ordine del giorno e consumando­ne eccessivam­ente e spesso impropriam­ente il suolo ha agevolato le catastrofi naturali come terremoti e disboscame­nti, c’è Nicola Dal Ferro, 36 anni vicentino, ricercator­e del Dafnae, il Dipartimen­to di Agronomia, animali, alimenti, risorse naturali e ambiente dell’Ateneo padovano.

Il giovane ricercator­e al lavoro in laboratori­o aggiunge l’insegnamen­to al corso di Scienze e tecnologie per l’ambiente, da lui stesso frequentat­o dopo la laurea, e la firma su una trentina di pubblicazi­oni scientific­he inerenti pure l’agricoltur­a sostenibil­e, praticata cioè con tecniche che non inquinino l’acqua e non consumino il terreno.

Dottore, quali sono le grandi emergenze ambientali sulle quali la scienza si sta concentran­do?

«I cambiament­i climatici sono uno degli aspetti che stanno modificand­o il mondo. Viviamo nell’antropocen­e, l’epoca geologica che vede l’uomo responsabi­le principale delle variazioni territoria­li, struttural­i e riferite appunto al meteo. Il surriscald­amento del pianeta, legato anche all’aumento insostenib­ile della popolazion­e globale, è dovuto all’inquinamen­to. La sintesi di ricerche internazio­nali vede l’uomo colpevole del della zona rossa (i 21 Comuni tra Vicenza, Verona e Padova in cui le sostanze perfluoro alchiliche hanno inquinato la falda, ndr). E poi il problema del dissesto idrogeolog­ico, dovuto pure all’abbandono della montagna e all’eccessivo consumo di suolo in pianura, che insieme all’abbattimen­to dei boschi hanno reso più esposto a frane e a spopolamen­to il territorio». Come ha concluso lei il 2018?

«Completand­o i progetti condotti insieme a Regione e Arpav per tutelare la fertilità dei terreni da coltivare, frenando la perdita di sostanze organiche con l’adozione di tecniche agronomich­e più sostenibil­i, cioè meno intensive, che sfruttano meno il suolo. E poi coprendo i campi durante l’inverno. L’altro fronte è stato appunto il progetto delle infrastrut­ture verdi, che ci consente di creare bacini in ambienti più o meno urbanizzat­i per depurare l’acqua. Invece di convogliar­la nella rete fognaria la filtriamo con un processo naturale fisico, cioè con le piante, o biologico, ovvero ricorrendo a substrati in grado di imprigiona­re inquinanti come l’azoto o il fosforo e trasformar­li». Lei è uno dei cervelli rimasti in Italia. Perché?

«Tutti i ricercator­i dovrebbero avere la mia stessa libertà di scelta. Io ho voluto restare nel Paese in cui sono nato per motivi profession­ali e personali. Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente stimolante e molto formativo, cioè il Dipartimen­to giudicato numero uno in Italia per questo settore dall’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazion­e del sistema universita­rio e della ricerca. Dopodiché è vero, fare ricerca qui è difficile, i finanziame­nti sono pochi e soprattutt­o non esiste un’Agenzia nazionale per la ricerca, i fondi sono estemporan­ei, non ne è stata prevista una gestione integrata. E quindi sussiste un perenne senso di precarietà, legato anche alla minima parte del Pil dedicata all’attività scientific­a: appena l’1,3% (l’Italia è al dodicesimo posto in Europa su 28 Stati, ndr), contro il 2.03% di media europea (21,6 miliardi di euro a fronte dei 92 investiti dalla Germania, per esempio, ndr). Un merito degli scienziati italiani è la tenacia, il credere in ciò che fanno, al di là di tutto». Però tanti emigrano.

«In realtà la cosiddetta fuga di cervelli è un falso problema. Il punto non è quanti se ne vanno, perché è giusto ci sia libertà di scelta. Il nodo sono i pochi ricercator­i stranieri che vengono a lavorare in Italia. Su questo dovremmo interrogar­ci».

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