Caso Battisti, la bestia catturata e mostrata come trofeo di caccia è un grave errore
La belva incatenata. I cacciatori con il cinghiale vivo ancora caldo. Il sangue, le divise, i morti, lo spettacolo, i ricordi… tutte immagini nitide. Tutto in piazza e che il rito collettivo abbia inizio.
La bestia arriva! Guardatela! Adesso marcirà! Siate contenti! Quando la belva è un uomo non si può gioire del suo marcire perché l’espressione pubblica certifica inevitabilmente che si sta andando in una direzione inversa alla nostra stessa natura ed alla nostra stessa qualità di uomini e, per chi lo è, di cristiani. Provare compiacimento pubblico per la cattura spettacolarizzata non può avvenire in nome delle vittime; chi ai morti è legato può trovare giustizia nel vedere applicata la legge con la sua funzione fortemente repressiva ma anche riabilitativa. Ricordando che la repressione deve anche essere il più tempestiva possibile se vuole essere riabilitativa.
Non c’entrano nulla le responsabilità penali, gravissime ed accertate, non c’entrano nomi e non c’entrano le idee politiche, non c’entra la retorica, non si tratta di buonismo, né di pietas, c’entra solo la capacità di essere umani. Ma pare che tutti ce lo siamo dimenticato.
Per terra c’è ancora l’immagine del sangue di chi innocente è stato portato via, di uomini a cui la vita è stata spezzata e quindi da un lato questo film collettivo e sociale proietta l’immagine del perdono che è tema che entra esclusivamente nella sfera morale e personale dei parenti delle vittime, dall’altro c’è a tutto schermo l’immagine della «sete di giustizia».
La «sete di giustizia» ostentata e mediatica, contraria, tra l’altro, alle norme del nostro codice. Superata la giustizia manzoniana, evitata la pena di morte, negli ultimi secoli abbiamo visto atti, convenzioni e dichiarazioni universali che avrebbero dovuto portare al centro dell’agire pubblico l’uomo ed i suoi diritti, anche per chi si è macchiato del crimine peggiore. Lo Stato, che deve amministrare la giustizia, non può dimenticare questo percorso e questi pilastri del diritto e della cultura occidentale.
Al colpevole va tolta la libertà, mai la dignità e mai la speranza di diventare qualcosa di diverso e di migliore, il colpevole non può diventare il trofeo tribale che si ostenta dopo la caccia. Non può lo Stato, non possiamo noi cittadini dare il là a manifestazioni sguaiate e carnevalesche, non possiamo gioire per la preda insanguinata e puzzolente che, con scrosci di applausi invitiamo sorridenti a «marcire in galera». L’uomo non marcisce. Mai. Uomini e fatti accaduti in questi giorni sono solo il pretesto della riflessione che deve partire da chi rappresenta lo Stato. La propaganda e la comunicazione politica non possono essere fatte da cacciatori alla ricerca della prossimo scalpo. I colpevoli vanno catturati senza reticenze (e subito), senza alcuna sacca sociale di impunità, perché, chi regala immunità al colpevole, compie una profonda ingiustizia verso le vittime e se chi elargisce salva condotti è uno Stato il cortocircuito è ancora peggiore. Lo Stato raggiunge il suo scopo ultimo e più alto solo quando riconosce e fa rispettare i valori primi dell’uomo nel contesto delle leggi e del patto sociale; se ci si compiace della gogna e del pubblico ludibrio imbocchiamo la china di un imbarbarimento sociale che la storia ha già visto, ci porterà a conseguenze dannose per tutti, anche per quelli che oggi applaudono il cinghiale dopo la battuta di caccia.
*Avvocato