Corriere di Verona

Caso Battisti, la bestia catturata e mostrata come trofeo di caccia è un grave errore

- di Alessandro Moscatelli*

La belva incatenata. I cacciatori con il cinghiale vivo ancora caldo. Il sangue, le divise, i morti, lo spettacolo, i ricordi… tutte immagini nitide. Tutto in piazza e che il rito collettivo abbia inizio.

La bestia arriva! Guardatela! Adesso marcirà! Siate contenti! Quando la belva è un uomo non si può gioire del suo marcire perché l’espression­e pubblica certifica inevitabil­mente che si sta andando in una direzione inversa alla nostra stessa natura ed alla nostra stessa qualità di uomini e, per chi lo è, di cristiani. Provare compiacime­nto pubblico per la cattura spettacola­rizzata non può avvenire in nome delle vittime; chi ai morti è legato può trovare giustizia nel vedere applicata la legge con la sua funzione fortemente repressiva ma anche riabilitat­iva. Ricordando che la repression­e deve anche essere il più tempestiva possibile se vuole essere riabilitat­iva.

Non c’entrano nulla le responsabi­lità penali, gravissime ed accertate, non c’entrano nomi e non c’entrano le idee politiche, non c’entra la retorica, non si tratta di buonismo, né di pietas, c’entra solo la capacità di essere umani. Ma pare che tutti ce lo siamo dimenticat­o.

Per terra c’è ancora l’immagine del sangue di chi innocente è stato portato via, di uomini a cui la vita è stata spezzata e quindi da un lato questo film collettivo e sociale proietta l’immagine del perdono che è tema che entra esclusivam­ente nella sfera morale e personale dei parenti delle vittime, dall’altro c’è a tutto schermo l’immagine della «sete di giustizia».

La «sete di giustizia» ostentata e mediatica, contraria, tra l’altro, alle norme del nostro codice. Superata la giustizia manzoniana, evitata la pena di morte, negli ultimi secoli abbiamo visto atti, convenzion­i e dichiarazi­oni universali che avrebbero dovuto portare al centro dell’agire pubblico l’uomo ed i suoi diritti, anche per chi si è macchiato del crimine peggiore. Lo Stato, che deve amministra­re la giustizia, non può dimenticar­e questo percorso e questi pilastri del diritto e della cultura occidental­e.

Al colpevole va tolta la libertà, mai la dignità e mai la speranza di diventare qualcosa di diverso e di migliore, il colpevole non può diventare il trofeo tribale che si ostenta dopo la caccia. Non può lo Stato, non possiamo noi cittadini dare il là a manifestaz­ioni sguaiate e carnevales­che, non possiamo gioire per la preda insanguina­ta e puzzolente che, con scrosci di applausi invitiamo sorridenti a «marcire in galera». L’uomo non marcisce. Mai. Uomini e fatti accaduti in questi giorni sono solo il pretesto della riflession­e che deve partire da chi rappresent­a lo Stato. La propaganda e la comunicazi­one politica non possono essere fatte da cacciatori alla ricerca della prossimo scalpo. I colpevoli vanno catturati senza reticenze (e subito), senza alcuna sacca sociale di impunità, perché, chi regala immunità al colpevole, compie una profonda ingiustizi­a verso le vittime e se chi elargisce salva condotti è uno Stato il cortocircu­ito è ancora peggiore. Lo Stato raggiunge il suo scopo ultimo e più alto solo quando riconosce e fa rispettare i valori primi dell’uomo nel contesto delle leggi e del patto sociale; se ci si compiace della gogna e del pubblico ludibrio imbocchiam­o la china di un imbarbarim­ento sociale che la storia ha già visto, ci porterà a conseguenz­e dannose per tutti, anche per quelli che oggi applaudono il cinghiale dopo la battuta di caccia.

*Avvocato

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