Riuscire a salvarsi e tornare alla vita Long Litt Woon e «La via del bosco»
Questa sera a Cortina la scrittrice è ospite di Una Montagna di Libri
Una delle caratteristiche della letteratura dovrebbe essere la capacità di trasformare ogni argomento, anche il più laterale e apparentemente remoto o persino residuale, in vivo, palpitante. Secondo questo criterio, il libro di Long Litt Woon appartiene sicuramente alla buona letteratura. Chi pensa che parlare di funghi e miceti, di gambi e lamelle, di cestini ed essiccazioni non potrà mai appassionare come una storia d’amore, dovrà ricredersi leggendo La via del bosco (Iperborea). Scoprirà un altro tipo di amore: quello che lega gli esseri umani alle proprie contagiose ossessioni.
Sessantun anni, Woon è un’antropologa malese trapiantata in Norvegia che una mattina ha perso, all’improvviso, il marito Eiolf. Un antico amore che scompare, assurdamente, può condurre alla follia, o all’abisso della più grande disperazione. Invece, la vita acchiappa Woon, le dà una chance di non sprofondare. Lo fa attraverso un corso di micologia per principianti a cui si è iscritta quasi per caso: uno di quegli angoli di mondo in cui appassionati dalle più diverse estrazioni si ritrovano per studiare, annusare, assaggiare, soprattutto camminare, cercare, raccogliere. E lì, in questo curioso incubatore, umido e profumato come un sottobosco, Woon ha modo di contrapporre alla brutalità della perdita un ritmo diverso. «Una psicologa che ha letto il libro mi ha detto che è una protesta contro il modo in cui si gestisce il lutto nei tempi moderni in Norvegia e forse in Europa. Non c’è più tempo. Piangere o disperarsi è diventato un bene di lusso. E io questo lusso voglio concedermelo», dice Woon. Il suo libro arriva in Italia in una sontuosa edizione Iperborea, casa editrice specializzata da trent’anni nella pubblicazione della letteratura nordica.
L’autrice parla di porcini e finferli, della sublime bellezza di una spugnola come del piacere tattile di premere sulla «carne» di un boleto, dell’odore di liquirizia o mandorla amara di un prataiolo maestoso, con un entusiasmo che fa intravedere una strada per la felicità. I raccoglitori di funghi costituiscono per lei un’inedita comunità, con tutti i tic dell’esperienza. Le trasmettono regole auree («non esiste caratteristica esteriore comune che consenta di distinguere un fungo velenoso da uno che non lo è») e segreti del mestiere («se vai a raccogliere porta con te una spazzola per compiere la ripulitura in loco, per risparmiare tempo a casa e perché la ripulitura del fungo può avere una valenza meditativa»).
Spedita nei dintorni di Oslo alla ricerca delle specie più strane e sconosciute, Long capisce subito che i raccoglitori puntano solo a quelle e snobbano i funghi che finiscono sulle nostre tavole, come il gallinaccio (Cantharellus cibarius), «che contrariamente alla maggior parte dei funghi più apprezzati sembra quasi fare di tutto per attirare l’attenzione, con il suo color albicocca dorato, e che per chi ha il gusto della sfida, è fin troppo facile da trovare. Ho conosciuto micofili che, quando vedono i “soliti” gallinacci, passano oltre. Se li nominano, minimizzano: “Mah sì, ogni tanto può starci”».
Il libro di Long Litt Woon tratta ogni aspetto del mondo dei funghi, confermando l’idea che una passione per essere tale deve necessariamente avere contorni ossessivi, totalizzanti: dalla cucina alla tassonomia, da Linneo alle varie proprietà allucinogene di alcuni miceti. Facendo infine combaciare le due parti, il manuale e il racconto autobiografico. Per una donna abituata ad un approccio razionale, cartesiano, alla necessità di avere sempre tutto sotto controllo, il lutto è doppiamente scioccante: nega la possibilità di controllare gli eventi. «Cercavo in me stessa una reazione appropriata e non la trovavo. Capii che dovevo attendere. Come con i funghi: puoi conoscerli, esserti preparato, puoi avere i tuoi posti segreti, recarti nell’ora giusta per raccoglierli, e non trovarli. Anche i funghi sfuggivano al mio controllo».