Livelli essenziali ancora all’anno zero Scelte impopolari e fondi da trovare
Dalla sanità al sociale, lo Stato è in ritardo ma la scelta è politica. Stabilire la spesa è il punto di partenza
Se un punto è stato chiarito durante l’incontro di ieri tra il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia e il governatore Luca Zaia, è che la trattativa per l’autonomia ripartirà dai Lep, ossia i Livelli essenziali delle prestazioni. O non ripartirà.
Cosa sono i Lep? Lo si legge all’articolo 117 della Costituzione: lo Stato deve determinare «i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». In buona sostanza, nell’ammettere che si possano riconoscere alle Regioni «nuove e più ampie forme di autonomia», la Carta impone però allo Stato di garantire un «livello minimo» dei servizi che devono essere assicurati ai cittadini a Padova come a Napoli, a Milano come Bari, specialmente in tre ambiti: istruzione-formazione, sociale e sanità (in quest’ultimo caso sono già previsti e operativi i Lea, i Livelli essenziali di assistenza, utilizzati nel riparto annuale del Fondo Salute tra le Regioni).
Chi deve mettere a punto i Lep? Il compito spetta alla Sose, la società per azioni creata dal ministero dell’Economia e Bankitalia per l’elaborazione degli Isa, gli Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (lo strumento che ha sostituito gli studi di settore), e dei fabbisogni standard, perno attorno a cui ruota - meglio, dovrebbe ruotare - il federalismo fiscale. Ma quanto ci vuole per scriverli? È la domanda delle domande: previsti dalla Costituzione, ad oggi non sono mai stati non solo completati ma neppure iniziati. Ci vorrebbe un anno, dicono. Ma siamo a zero. L’ultima volta che se ne è parlato è stato il 31 dicembre 2017, in una relazione scritta da Sose per il parlamento. Da allora non si è più mossa foglia. Non è colpa di Sose, ovviamente, visto che si tratta di tecnici chiamati a mettersi al lavoro solo quando la politica lo chiede. Il perché fin qui la politica non l’abbia chiesto è invece presto detto. Ci sono almeno due problemi.
Il primo è stabilire quale sia il livello minimo di una prestazione, perché la situazione è molto diversificata da Regione a Regione e non sempre il motivo è quello che ci si attende. Prendiamo il Sociale, ad esempio gli asili: una Regione potrebbe avere servizi bassi perché spreca le sue risorse ed è inefficiente; ma potrebbe averli bassi anche perché ritiene quel servizio non strategico e, pur di non tassare ulteriormente i suoi cittadini, preferisce non investirci troppi soldi; di contro, una Regione potrebbe avere ottimi servizi perché è virtuosa ed efficiente, certo, ma magari anche perché, per realizzarli costringe i suoi abitanti a versare un obolo in più. Chi ha ragione? A quale modello si deve guardare per poi tirare la livella? In altri termini, ci si rifà al ristorante stellato o a quello a prezzo fisso? È chiaro che si tratta di una scelta politica molto delicata, che rischia di provocare dure reazioni nei territori (specie se la fissazione di un Lep «alto» costringesse le Regioni a mettere le mani nelle tasche dei cittadini).
Il secondo problema, che poi è il problema, riguarda le risorse. Una volta fissato il Lep, infatti, lo Stato deve trovare i soldi per ridurre le disuguaglianze in questione, altrimenti il Lep resta lettera morta. Di quanti soldi parliamo? E dove si trovano? Stando a dei vecchi dossier, solo per uniformare il Sociale in tutta Itali aci vorrebbero trai 2 e i 3 miliardi. Il governo è disposto a recuperarli dal Reddito di cittadinanza o da Quota 100 o dagli 80 euro di Renzi?
Con una precisazione forse non scontata: i Lep, ovviamente, non potrebbero essere limitati alle sole materie oggetto di devoluzione nell’ambito della trattativa autonomista. Per principio andrebbero applicati a tutte le materie, comprese quelle oggi gestite dallo Stato e dalle Regioni. Con l’effetto moltiplicatore che si può ben immaginare quanto ai problemi di cui sopra.