I tre bàcari del cuore e un inno ai «francobolli»
Diceva George Sand che «i veneziani hanno nel carattere un immenso fondo di gioia; il loro peccato capitale è la golosità, ma una golosità ciarliera e viva». Vero. Se volete infatti realmente vivere lo spirito di Venezia, capirla e soprattutto rispettarla, dovete assolutamente fare sosta in un bàcaro, la tipica osteria cittadina. L’etimologia del termine è controversa: per alcuni pare derivi dall’espressione dialettale far bacàra, gozzovigliare, per altri da bacaresi o baresi, in passato i maggiori venditori di vino meridionale in città, per altri ancora c’è addirittura lo zampino del dio Bacco. Il bàcaro è il regno dei cicheti (dal latino ciccus: piccola quantità), appetitosi stuzzichini a base di carne o pesce da consumarsi al banco rigorosamente con un’ombra, un calicetto di vino. Senza voler offendere nessuno, vi indico i miei tre bàcari del cuore. Cominciamo in zona Accademia da Cantine del vino già Schiavi (Dorsoduro 992, Fondamenta Nani), dove la signora Alessandra prepara da decenni i migliori crostini della città (tonno e porro i miei favoriti) da consumarsi in piedi o appoggiati al muretto che costeggia l’attiguo canale. Ci si può sbizzarrire con oltre 500 etichette di vino. Baluardo della cultura gastronomica popolare cittadina è All’Arco, vicino a Rialto (Calle dell’Occhialer, San Polo 436) dove si riesce persino ancora ad assaggiare la spienza, la milza di vitello infilzata negli stecchini di legno, vera rarità. Ma è tutto buono da Francesco, peraltro star del noto blog Facebook di Federico Blumer «Il Viaggio di scoperta», anche i vini in bottiglia. Non lontano (San Polo 429, Calle dei Do Mori) vi è poi la magnifica Cantina Do Mori, bàcaro antichissimo, già frequentato da Casanova, dove impazzisco per i «francobolli», piccoli tramezzini. Quelli con la «coppa di toro» sono incredibili, un vero balar de Carnaval.