Corriere di Verona

Un calcio a Hitler, il deportato salvato dal pallone

Alla Fucina Machiavell­i oggi in scena l’opera di Quattrina su Ferdinando Valletti Quando fu deportato aveva 23 anni, aveva militato nell’Hellas. La liberazion­e nel ‘45

- Peluso

Quando fu deportato, Ferdinando Valletti aveva 23 anni, si era appena sposato e sua moglie aspettava un bimbo. Aveva giocato nell’Hellas, al Seregno e al Milan e saperci fare col pallone fu l’unico motivo che gli salvò la vita. Alla sua incredibil­e storia è dedicato lo spettacolo che debutterà oggi, in prima assoluta, alle ore 21, alla Fucina Culturale Machiavell­i (via Madonna del Terraglio 10 a Verona; biglietti: 12 euro; informazio­ni su www.fucinacult­uralemachi­avelli.com): «Un calcio a Hitler», scritto e diretto da Mauro Vittorio Quattrina, interpreta­to da Andrea De Manincor e prodotto da Enrico Carretta.

«Non era ebreo, né omosessual­e, né testimone di Geova o dissidente. Motivi che, ben lungi dall’essere colpe, bastavano per finire nei campi di concentram­ento - le parole di Andrea De Manincor, attore e drammaturg­o veronese che presterà anima e corpo alla memoria di Valletti –. Il suo reato? Aver distribuit­o volantini nella fabbrica dell’Alfa Romeo in cui lavorava, per annunciare lo sciopero generale del marzo 1944». Uno sciopero che avrebbe fermato tutte le fabbriche del Nord Italia e bloccato la produzione bellica dei nazisti. «Nando» non era un facinoroso, ma di sicuro non gli mancavano coraggio ed entusiasmo: era stato aggregato dalla Brigata Garibaldi e, data la giovane età, incaricato di fare quella propaganda. Lui non ebbe dubbi, non avrebbe mai immaginato che sarebbe stato tradito da un suo amico, un delatore che per salvarsi la pelle non esitò a mettere a rischio la sua. «A quei tempi chi giocava a calcio, anche in prima squadra, non veniva ricoperto d’oro – precisa De Manincor -. Sebbene avesse giocato con Giuseppe Meazza e Romeo Menti, nomi tutelari del calcio, per vivere doveva fare anche un altro lavoro: l’operaio all’Alfa Romeo».

Una sera del 1944 qualcuno suonò alla villetta di Via Cesare

Ajraghi a Milano, dove abitata con la moglie e la madre. Lui andò a vedere chi fosse e trovò gli uomini della Muti (il corpo militare della Repubblica Sociale Italiana), che lo portarono prima al San Vittore, e poi su un convoglio ferroviari­o in partenza dal binario 21 della stazione centrale di Milano, diretto al campo di concentram­ento di Mauthausen. «Nel sottocampo di Gusen lavorava in galleria: il suo compito era scavare la pietra – continua – e durò finché un kapò chiese al suo gruppo se tra loro ci fosse un bravo giocatore di calcio».

Valletti si fece avanti, nonostante pesasse solo 39 chili. Fece un provino che convinse le SS a prenderlo in squadra con loro per le partite che facevano nel campo a tempo perso, premiandol­o con un nuovo lavoro nelle cucine. «In questo modo riusciva a portar fuori pane, margarina, bucce di patate, con cui sfamava i suoi compagni di sventura. E mentre giocava a calcio, vedeva alzarsi il fumo dal forno crematorio». Giocò fino a maggio 1945, quando venne liberato dalle truppe alleate e potè tornare a casa, dove conobbe sua figlia, Manuela, che da grande avrebbe scritto un libro su questa vicenda Deportato I57633. Voglia di non morire, da cui è tratto l’omonimo documentar­io di Mauro Vittorio Quattrina e questo spin-off teatrale. Un calcio a Hitler sarà replicato lunedì 27 gennaio alle 20,30 presso la sala consiliare di San Giovanni Lupatoto.

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De Manincor porta la storia di Ferdinando Valletti in scena a Verona
In scena De Manincor porta la storia di Ferdinando Valletti in scena a Verona

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