Elda Baggio, la chirurga in prima linea
Docente all’università di Verona, ma anche «chirurga di guerra», nel 2010 è entrata a far parte di Medici Senza Frontier dedicandosi a missioni umanitarie in giro per il mondo
Il mondo di Elda Baggio, medico chirurgo ha una sola latitudine, quella della solidarietà. Altoatesina di San Candido, Verona è la sua città dal 1970 quando vi arrivò per completare i suoi studi di medicina
Donne in prima linea, sui fronti di guerre «scomode e dimenticate», negli angoli più disperati del pianeta, dove vedere l’alba di un mattino è già una battaglia vinta. Il mondo di Elda Baggio, medico chirurgo ha una sola latitudine, quella della solidarietà. Altoatesina di San Candido, Verona è la sua città dal 1970 quando vi arrivò per completare i suoi studi di medicina: laurea nel 1974, con specializzazione prima in chirurgia generale e quindi vascolare, è docente di Chirurgia vascolare all’università e responsabile del medesimo reparto al Policlinico G.B. Rossi in Borgo Roma: «Entrai al Policlinico nel 1975; allieva del professor Vecchioni, che mi diede fiducia e gli devo molto». Anni in cui le donne in certi reparti erano lesa maestà: «Cosa fa lei, qui in chirurgia, vada in pediatria!» le dicevano. Già, ma una donna come Elda Baggio, mica la pieghi così. Dal 2010, anno in cui è entrata a far parte di Medici Senza Frontiere, si dedica a missioni umanitarie in giro per il mondo, Burundi, Somalia, Congo, Iraq, Siria e quant’altro. Sei settimane all’anno, le sue ferie le passa così. La scintilla scocca nel 1979, quando partecipa a una missione della Caritas al confine tra Cambogia e Thailandia: «Al campo profughi ci prendevamo cura dei rifugiati in fuga dal terrore del regime di Pol Pot. Avevo due figli e un marito meraviglioso che comprese quanto bisogno avessi di rendermi utile. Vi rimasi tre mesi». Al ritorno si prende però il rimbrotto del professor Vecchioni: «Mi disse che il mio posto era in chirurgia e che lì dovevo rimanere. Per 25 anni non partecipai più ad alcuna missione». La fiamma tuttavia non le si spegne; nel 2000 l’università di Verona sigla un accordo con l’ateneo di Ngozi in Burundi. Si tratta di un corso in infermieristica: «Al professor Vecchioni dissi che ero abbastanza grande da poter andare. La collaborazione prosegue ancora oggi».
Giovanni Di Cera, che a Verona sta formando il gruppo di Medici Senza Frontiere, la cerca; è lui a farle conoscere Gianfranco di Maio, medical advisor MSF: «Lanciammo un master in chirurgia tropicale e delle emergenze umanitarie, che prevedeva stage di un mese in Burundi». Nella Ong francese entra nel 2010. Nel 2012 è in Somalia: «È la guerra dei trent’anni, nulla è cambiato, ma della Somalia non si parla più. Lì ho visto l’orrore della mutilazione genitale femminile». Due anni dopo presta servizio in Congo, nella regione del Lago Kivu nel nord del paese, dove il sottosuolo è ricco di coltan, ma in superficie il colera è endemico e in quell’anno si propaga l’Ebola: «La violenza di genere era molto diffusa, e lo stupro considerato un’arma di guerra. A Denis Mukwege, un chirurgo di Goma che si dedicava alla ricostruzione dei perinei, l’Unione Europea assegnò il Premio Sakharov».
Quindi è la volta dello Yemen: «Eravamo due italiane, io Chiara Pravisani anestesista all’ospedale di Udine: dopo due giorni di attesa a Gibuti, MSF affittò una barca e col mare mosso dopo 17 ore di navigazione a luci spente per sfuggire ai pirati sbarcammo al porto di Aden. Lo Yemen è un paese meraviglioso devastato dalla guerra civile. Ricevevamo feriti di entrambe le fazioni, anche trenta alla volta, li suddividevamo per colore a seconda della gravità dei casi. Potevamo accogliere otto pazienti in codice rosso in contemporanea». Nel 2017 vola in Iraq: «Arrivai poco dopo la battaglia di Mosul. Le mine facevano stragi di bambini. Vicino a noi, c’era un campo di prigionia iracheno, dove i detenuti erano sottoposti a condizioni disumane. Vi poteva entrare solo la Croce Rossa; ci mandavano uomini in condizioni pietose con evidenti segni di tortura. A un medico iracheno, i miliziani del Califfato avevano sterminato l’intera famiglia, e per questo motivo si rifiutava di intervenire. Fu licenziato. Per MSF il diritto di ognuno a essere curato è insindacabile».
E poi Gaza e Siria: «Medici Senza Frontiere non accetta fondi dai governi; nemmeno dalla UE, dopo che ha firmato l’accordo con Erdogan per il trattenimento dei profughi siriani in un momento in cui la Turchia non aveva sottoscritto la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Accettiamo solo donazioni da privati, in modo da garantirci autonomia». E ora, cosa l’aspetta? «In Burundi continuo ad andare, e in Africa non c’è solo la Libia, ma tante guerre di cui nessuno parla. Oltre a prestare le cure necessarie per salvare le vite, abbiamo anche il compito di portare testimonianze». C’è proprio ancora molto da fare a questo sporco mondo.