Corriere di Verona

Addio all’uomo che fermò Maniero

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la fase più critica ed è tornata nella loro casa di Marcon. Lascia anche le tre amate figlie.

Tarantino di nascita, Pavone aveva iniziato come cancellier­e, prima in pretura, poi in tribunale, diventando infine dirigente al tribunale di Sorveglian­za. Quindi a fine anni Ottanta il «salto» con il concorso in magistratu­ra e subito le grandi inchieste. A inizio anni Novanta diventa giudice istruttore ed è lui ad avere l’intuizione di collegare una serie di reati rimasti senza colpevole e attribuirl­i alla Mala del Brenta. «Ero certo che ci fosse un filo che li teneva uniti - raccontò anni fa - Pian piano il mosaico si compose». Nacque l’indagine su Felice Maniero e la prima associazio­ne mafiosa sul territorio veneto, come riconosciu­to in tutte le sentenze. Ma non fu l’unica sua grande inchiesta. Si occupò anche della «banda dei giostrai», portando alla condanna 80 persone accusate di una trentina di sequestri di persona; ma anche di corruzione, con l’inchiesta sulle mazzette ad alti ufficiali della Guardia di Finanza veneziana, tra cui il colonnello Mauro Petrassi. A lungo ha militato nella Dda di Venezia, occupandos­i soprattutt­o di narcotraff­ico e infine, dopo un passaggio alla Procura generale dal 2008 al 2013, era diventato procurator­e capo di Belluno, dove divenne famoso il suo «scontro» con l’allora sindaco di Cortina d’Ampezzo Andrea Franceschi, indagato in vari procedimen­ti. Da fine 2016 era in pensione.

Inchieste delicate, che nel cuore della battaglia alla Mala del Brenta portarono ad essere sotto scorta non solo lui, ma anche i suoi cari, con le figlie adolescent­i che arrivavano al liceo Bruno di Mestre su una macchina della polizia. «Sacrifici immensi per la libertà propria e dell’amata famiglia», sottolinea la giunta dell’Anm Veneta, che ricorda come anche da pensionato si fosse messo a disposizio­ne come testimone per chi volesse conoscere i fenomeni criminali che aveva combattuto. «Franco (i suoi colleghi lo chiamavano così, ndr) Pavone era un uomo tutto d’un pezzo, costante, onesto intellettu­almente - aggiunge Michele Dalla Costa, procurator­e capo di Treviso, che fu uno dei pm del processo a Maniero - ma soprattutt­o era generoso e sempre molto vicino ai colleghi. Ricordo che quando tolsero la scorta a me e ad Antonio Fojadelli, lui prese le nostre difese e disse che allora

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