E Calzedonia ora produce mascherine e camici
Calzedonia, il famoso Gruppo tessile veronese, ha deciso di riconvertire alcuni stabilimenti alla produzione di mascherine e camici. L’operazione è stata promossa dal presidente, Sandro Veronesi. I siti riconvertiti saranno quelli italiani di Avio (Trento) e Gissi (Chieti), e quelli in Croazia.
Ese le mascherine mascherassero qualcos’altro? A pensar male si fa peccato, ammoniva l’illustre scomparso. Ma qualche volta... Il tema delle rapide conversioni industriali di nomi grandi e piccoli della manifattura veneta registrate in questi giorni per immettere sul mercato o regalare presidi medico sanitari – mascherine, camici, copricapi, guanti, detergenti, disinfettanti ad uso professionale e personale, eccetera – è scivoloso e il rischio è di confondere ingiustamente la filantropia autentica con la furberia.
Ieri il nome che ha fatto il botto è quello di Calzedonia, colosso veronese che ha scelto di dedicare gli impianti di Avio (Trento) e Gissi (Chieti), oltre a quelli croati, alla produzione di mascherine e di investire per questo in nuove linee semi-automatiche in grado di realizzare 10 mila pezzi al giorno, i primi dei quali sono stati donati all’ospedale e al Comune di Verona. Ma anche, per restare nel fashion, il Gruppo Mayhoola, al quale appartiene la vicentina Pal Zileri, qualche giorno fa ha lanciato la produzione di camici e mascherine per uso medico. Altro caso, su un segmento diverso. La Pettenon Cosmetics, di San Martino di Lupari (Padova), 310 dipendenti per 98,5 milioni di fatturato, dal 16 marzo dedica due turni per la produzione di una emulsione fluida a base di acqua ossigenata, senza risciacquo, ideale per il lavaggio frequente delle mani. E qui l’intento è dichiarato: «Rispondere prontamente alle esigenze di mercato – spiegano - è una delle caratteristiche che ci contraddistinguono da sempre».
Onesto e legittimo business, non regali. Si potrebbe continuare perché le aziende che si sono mosse in questi giorni nella direzione di rendere disponibili articoli utili a contrastare il coronavirus è davvero lunga e alcune riflessioni e distinzioni si impongono. Il cuore del problema, almeno da domenica, sta nel codice Ateco, cioè quelle cifra specifica che contraddistingue nelle Camere di commercio le imprese a seconda del loro business fondamentale. Perché è su questa che l’ultimo decreto governativo ha compilato gli elenchi delle attività essenziali (un centinaio) e quelle che da domani devono sospendere la produzione. Al netto di deroghe per ragioni di pubblica utilità, affidate ai prefetti, si può dire che tutto il tessile-abbigliamento dovrebbe fermarsi mentre le realtà che si
dedicano agli articoli per la pulizia hanno titolo per proseguire. Un’altra distinzione andrebbe fatta, nella prima categoria, è fra chi ha deciso la conversione prima di domenica e chi dopo.
Ovviamente la domanda di fondo è: quanto la decisione è dettata da genuina intenzione di dare una mano nell’emergenza e quanto, invece, dalla ricerca di giustificare la continuità produttiva? L’argomento si sposa bene con quanto si è iniziato a registrare nel pomeriggio di ieri: «Abbiamo già alcune segnalazioni – denuncia il segretario generale della Cisl del Veneto, Gianfranco Refosco – di aziende che hanno chiesto alle rispettive Cciaa di mutare il proprio codice Ateco. Questo lo sappiamo grazie a nostri delegati all’interno. Dalle altre non sindacalizzate non possiamo avere informazioni, ci rivolgiamo ai Prefetti perché vigilino con attenzione su casi simili». Rispetto ai nuovi produttori di mascherine, Refosco introduce un’ulteriore considerazione. «Ci sono esempi sani in cui la scelta è stata discussa e concordata con le organizzazioni sindacali ed in cui tenderei ad escludere astuzie di qualche genere».
Il collega pari grado della Cgil, Christian Ferrari, esige che la conversione sia «Vera e seria. Potremmo poi ragionare su una pianificazione industriale nazionale che manca a causa della quale ci siamo trovati del tutto sguarniti di articoli oggi preziosissimi ma che, poveri di valore aggiunto, da troppi anni lasciamo produrre all’estero».