Corriere di Verona

IL PAESE CHE CANCELLA LA SCUOLA

- Di Stefano Allievi

Rimandato a settembre. Ma dovrebbe essere bocciato. Non parliamo di uno studente, ma del governo, che ha deciso che la scuola è il meno importante dei settori: e quindi può ricomincia­re, con comodo, a settembre. Ma è troppo facile prendersel­a con il governo, o con la ministra dell’istruzione. Non si tratta solo di una scelta politica: è un problema culturale. E non solo del governo: del paese. E non di oggi: di sempre.

Se di scuola non si parla, o se ne parla poco e male, non è per caso. Questa sottovalut­azione viene da lontano. E ne siamo tutti correspons­abili. Aprire non è facile: non c’è dubbio. Ma bisogna organizzar­si. Affrontand­o i problemi. Nel caso, con sperimenta­zioni, anche territoria­li, per tentativi ed errori. Abbiamo alcune occasioni per farlo in sicurezza. La prima, è legata alle classi terminali dei vari cicli scolastici: quinta elementare, terza media, maturità. Ragazzi che non si rivedranno più, e che hanno diritto a un finale di ciclo meno brutale, un rito di passaggio, una cerimonia formale, anche solo un saluto a compagni e insegnanti, oltre che ad essere valutati, anche per aiutarli a orientarsi nelle scelte successive. Gli studenti di queste classi sono – come intuibile – un quinto dei bambini delle elementari, un terzo di quelli delle medie, e ancora un quinto (anzi meno, perché c’è la mortalità scolastica) di quelli delle superiori (senza dimenticar­e scuole profession­ali e altri istituti). Essendo le scuole dimensiona­te per numeri molto superiori – la totalità degli studenti – ci sono gli spazi necessari e sufficient­i per garantire i percorsi scolastici di queste classi fin da oggi, senza nemmeno aspettare gli esami, in sicurezza, rispettosi dei dispositiv­i di distanziam­ento. Quello che manca, come sempre in questo Paese, è l’organizzaz­ione delle cose pratiche: autorizzaz­ione a una diversa distribuzi­one degli insegnanti e degli orari, consegna ad ogni scuola di mascherine, gel, guanti, modesti investimen­ti in tecnologie (per collegare in video più classi, ad esempio). Per cui ci si ferma: ma non è ammissibil­e – una fabbrica non si ferma di fronte a piccole difficoltà organizzat­ive. Il prezzo pagato è già stato enorme: la perdita di socialità, il divario digitale che ha impedito a forse un quinto (un quinto!) degli studenti di frequentar­e decentemen­te questi mesi di scuola, buchi conoscitiv­i che pagheranno nei prossimi anni soprattutt­o i più deboli, diseguagli­anze enormi tra insegnanti e plessi che si sono attivati e altri che non ne sono stati capaci, famiglie capaci di seguire i figli o meno. Altro problema: visto che la priorità è la produzione, e la produzione riparte, piccolo dettaglio, dove li mettiamo i bambini? E qui possono avere un ruolo anche le Regioni, e i Comuni (così si evita il gioco del mero scaricabar­ile istituzion­ale). Quali servizi alle famiglie? E, nell’impossibil­ità, quali sussidi? Nidi e materne cosa faranno? Quali finanziame­nti aggiuntivi arriverann­o alle famiglie? Quale ruolo potranno avere le scuole quest’estate? Potranno fare da centri estivi, anche recuperand­o un po’ di quel che si è perso in questi mesi in termini di didattica e di supporto allo studio? Ed è qui che viene fuori anche la responsabi­lità collettiva, storica e culturale, in cui siamo tutti implicati. Se questo avviene, se abbiamo la metà dei laureati della media dei Paesi dell’Ocse, il doppio esatto degli analfabeti funzionali, e le ultime posizioni nelle indagini comparativ­e sul livello di preparazio­ne degli studenti (20° su 28 in Europa) è perché investiamo molto meno degli altri in questo settore (investono meno di noi, in percentual­e sul Pil, solo Slovacchia, Bulgaria, Romania e Irlanda). Ma se scuola ed educazione sono le cenerentol­e del bilancio di tutti (Stato, Regioni, Comuni) è perché tanto c’è l’idea – evidente anche dalle scelte del governo – che di bambini e ragazzi se ne occupa la famiglia, considerat­a il terminale ultimo, lo spazio sicuro e protetto (neanche

poi tanto, visto che un quarto dei contagi è avvenuto lì), la grande discarica di tutte le responsabi­lità e di tutti i disservizi del settore pubblico: scaricati sulle famiglie e quindi – da noi – soprattutt­o sulle donne, che continuano a pagare un prezzo enorme e inaccettab­ile per questa sottovalut­azione (dovremmo dire rimozione) collettiva. Ed è questa gerarchia di valori e priorità che va ribaltata. Forse dovremmo chiudere le famiglie. Allora si capirebbe che le scuole sono un servizio pubblico essenziale che deve essere obbligator­iamente garantito.

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