IL PAESE CHE CANCELLA LA SCUOLA
Rimandato a settembre. Ma dovrebbe essere bocciato. Non parliamo di uno studente, ma del governo, che ha deciso che la scuola è il meno importante dei settori: e quindi può ricominciare, con comodo, a settembre. Ma è troppo facile prendersela con il governo, o con la ministra dell’istruzione. Non si tratta solo di una scelta politica: è un problema culturale. E non solo del governo: del paese. E non di oggi: di sempre.
Se di scuola non si parla, o se ne parla poco e male, non è per caso. Questa sottovalutazione viene da lontano. E ne siamo tutti corresponsabili. Aprire non è facile: non c’è dubbio. Ma bisogna organizzarsi. Affrontando i problemi. Nel caso, con sperimentazioni, anche territoriali, per tentativi ed errori. Abbiamo alcune occasioni per farlo in sicurezza. La prima, è legata alle classi terminali dei vari cicli scolastici: quinta elementare, terza media, maturità. Ragazzi che non si rivedranno più, e che hanno diritto a un finale di ciclo meno brutale, un rito di passaggio, una cerimonia formale, anche solo un saluto a compagni e insegnanti, oltre che ad essere valutati, anche per aiutarli a orientarsi nelle scelte successive. Gli studenti di queste classi sono – come intuibile – un quinto dei bambini delle elementari, un terzo di quelli delle medie, e ancora un quinto (anzi meno, perché c’è la mortalità scolastica) di quelli delle superiori (senza dimenticare scuole professionali e altri istituti). Essendo le scuole dimensionate per numeri molto superiori – la totalità degli studenti – ci sono gli spazi necessari e sufficienti per garantire i percorsi scolastici di queste classi fin da oggi, senza nemmeno aspettare gli esami, in sicurezza, rispettosi dei dispositivi di distanziamento. Quello che manca, come sempre in questo Paese, è l’organizzazione delle cose pratiche: autorizzazione a una diversa distribuzione degli insegnanti e degli orari, consegna ad ogni scuola di mascherine, gel, guanti, modesti investimenti in tecnologie (per collegare in video più classi, ad esempio). Per cui ci si ferma: ma non è ammissibile – una fabbrica non si ferma di fronte a piccole difficoltà organizzative. Il prezzo pagato è già stato enorme: la perdita di socialità, il divario digitale che ha impedito a forse un quinto (un quinto!) degli studenti di frequentare decentemente questi mesi di scuola, buchi conoscitivi che pagheranno nei prossimi anni soprattutto i più deboli, diseguaglianze enormi tra insegnanti e plessi che si sono attivati e altri che non ne sono stati capaci, famiglie capaci di seguire i figli o meno. Altro problema: visto che la priorità è la produzione, e la produzione riparte, piccolo dettaglio, dove li mettiamo i bambini? E qui possono avere un ruolo anche le Regioni, e i Comuni (così si evita il gioco del mero scaricabarile istituzionale). Quali servizi alle famiglie? E, nell’impossibilità, quali sussidi? Nidi e materne cosa faranno? Quali finanziamenti aggiuntivi arriveranno alle famiglie? Quale ruolo potranno avere le scuole quest’estate? Potranno fare da centri estivi, anche recuperando un po’ di quel che si è perso in questi mesi in termini di didattica e di supporto allo studio? Ed è qui che viene fuori anche la responsabilità collettiva, storica e culturale, in cui siamo tutti implicati. Se questo avviene, se abbiamo la metà dei laureati della media dei Paesi dell’Ocse, il doppio esatto degli analfabeti funzionali, e le ultime posizioni nelle indagini comparative sul livello di preparazione degli studenti (20° su 28 in Europa) è perché investiamo molto meno degli altri in questo settore (investono meno di noi, in percentuale sul Pil, solo Slovacchia, Bulgaria, Romania e Irlanda). Ma se scuola ed educazione sono le cenerentole del bilancio di tutti (Stato, Regioni, Comuni) è perché tanto c’è l’idea – evidente anche dalle scelte del governo – che di bambini e ragazzi se ne occupa la famiglia, considerata il terminale ultimo, lo spazio sicuro e protetto (neanche
poi tanto, visto che un quarto dei contagi è avvenuto lì), la grande discarica di tutte le responsabilità e di tutti i disservizi del settore pubblico: scaricati sulle famiglie e quindi – da noi – soprattutto sulle donne, che continuano a pagare un prezzo enorme e inaccettabile per questa sottovalutazione (dovremmo dire rimozione) collettiva. Ed è questa gerarchia di valori e priorità che va ribaltata. Forse dovremmo chiudere le famiglie. Allora si capirebbe che le scuole sono un servizio pubblico essenziale che deve essere obbligatoriamente garantito.