IL NUOVO VALORE DEL LAVORO
L’emergenza sanitaria Covid19 che affligge il nostro sistema sociale ed economico ha forse qualche lato positivo se riguardato come campanello di allarme per le nostre coscienze: il lavoro è nuovamente al centro della scena, sia quello di chi in prima linea combatte la malattia per salvare vite umane (i medici e tutto il personale sanitario), sia di chi garantisce la nostra sussistenza quotidiana.
Ciò vale per chi opera tra trasporti e logistica, distribuzione e servizi essenziali. Questo lavoro vitale e solidaristico va valorizzato a partire dall’emergenza, ma guardando, in prospettiva, a politiche che invertano la tendenza al ribasso innescata da globalizzazione e concorrenza sfrenata tra sistemi produttivi e sociali. È necessario pensare a nuove forme di protezione sociale, che nella crisi pandemica ha mostrato evidenti limiti. Da una parte la frammentazione degli istituti crea incertezze difficilmente gestibili. Dall’altra parte c’è l’irragionevole esclusione dalle tutele del lavoro autonomo, che ha sofferto ancor più del subordinato la sospensione delle attività. Il bonus di 600 euro (pur commendevole) è la «foglia di fico» che nasconde un buco nero di migliaia e migliaia di lavoratori autonomi e microimprenditori stremati dalla mancanza di commesse, senza alcun ammortizzatore. Bisogna ripartire dal concetto di lavoro personale, in un’ottica universalistica di tutela sociale. L’organizzazione del lavoro è altro tema che emerge con prepotenza. Il lavoro agile, a distanza, tramite piattaforme digitali s’è rivelato risorsa preziosa non solo nelle imprese private ma anche nelle pubbliche amministrazioni, ove è stato decretato come forma «normale» di erogazione delle prestazioni. Basti pensare ai docenti di scuole e università che hanno garantito la continuità didattica, salvando il sistema educativo da un drammatico blocco a danno dei giovani. Queste modalità di organizzazione del lavoro personalizzate e degerarchizzate vanno incentivate e diffuse, non solo nell’emergenza, ma per rispondere alle esigenze di conciliazione vita-lavoro, per una nuova flessibilità nell’interesse (anche) del lavoratore.
La pandemia ha poi rilanciato il tema sicurezza sul lavoro, di cui si parla molto anche nella nostra Regione, in vista della «fase 2» promossa con determinazione dal governatore del Veneto. Richiamare le imprese alla responsabilità di assicurare l’integrità psico-fisica dei dipendenti è parte essenziale della strategia di valorizzazione del lavoro: va salutato con favore l’accordoquadro firmato il 14 marzo sulla tutela della salute nei luoghi di lavoro promosso dalla Regione.
Rimane al fondo di questa emergenza una questione che trascende la capacità degli Stati di ripensare i meccanismi di sorveglianza e regolazione di fenomeni globali, ma che, al contempo, riguarda da vicino la dimensione «glocale» del sistema produttivo. La crisi Covid-19 è l’ultima esternalità negativa dell’iper-globalizzazione, che ha consentito al virus di viaggiare tra Cina e Germania, muovendosi lungo le catene globali del valore. Scemata l’onda epidemica, perché non ripensare la geografia economica su base macro-regionale, su catene corte, in cui lavoro, produzione e commercio assumono di nuovo la logica della localizzazione? Le filiere di produzione corte, che la Regione ha valorizzato nell’agroalimentare, sono un modello che rafforza localismo e collaborazione territoriale, e avvicina azione economica e dimensione etica, così importante anche per la logica del mercato. Valori come sostenibilità sociale e ambientale, custodia di culture locali, condivisione e riconoscimento, sono “beni” che proteggono il lavoro in una rete di convenzioni sociali ed economiche di prossimità, centrate sulla persona e il suo sviluppo.