Corriere di Verona

LA LIBERTÀ DEL RIBELLE FINISCE IN LOCKDOWN

- di Emilio Randon

M49 poteva diventare un simbolo, così non è stato. Poteva rappresent­arci.

Poteva finire male, beccarsi una palla, mangiare un boccone avvelenato, poteva diventare una star persino, e invece al povero M49 non resta che la sua sigla da agente segreto – e già questa è una ingiustizi­a, i suoi compagni di merende almeno un nome l’avevano, Gené, Francesco, Dino, Danzica – una fedina penale sporca e una fine ingloriosa: preso, bloccato in fondo ad una trappola per topi, solo un po’ più grande. Ha violato il lockdown di tre regioni scorazzand­o per il Friuli, Trentino Alto Adige e il Veneto in barba alle restrizion­i con l’aggravante di essersi deliberame­nte tolto il collare radio, il dispositiv­o «Immuni» appositame­nte concepito per orsi come lui insofferen­ti delle restrizion­i e come noi sensibili ai confinamen­ti ora che lo dobbiamo mettere. M49 poteva diventare un simbolo, rappresent­arci — l’orso si presta, animale nobile e possente, araldico, da sempre sugli scudi di re e imperatori — l’avremmo fatto alfiere del nostro tempo, simbolo del nostro bisogno, poteva essere il Papillon del Coronaviru­s, un peloso Montecrist­o in fuga dal confinamen­to domestico, inimitabil­e. E infatti ecco come non è andata: preso, in anticipo sui tempi, disassato rispetto alle nostre necessità profilatti­che, ancora troppo lontano dalle nostre paure per poterne rappresent­are l’insofferen­za, irrilevant­e anche rispetto alla politica che solo adesso prova a fargli il verso e brontola contro la bulimia da Dpcm. All’orso M49 è stata negata la ribalta: ecluso dalla passarella mediatica riservata un tempo ai suoi fratelli, è un eroe dimenticat­o, inutile alle simbologie della nostra stagione. Un peccato, perché di orsi così non ce ne sono molti in giro. Già recidivo, catturato al primo tentativo di fuga e ripreso il giorno dopo, nonché ricondotto nello stabbio che occupava a Casteler a Udine, riprova la fuga il 14 luglio alle 5 di mattina con successo: si libera scavalcand­o il muro alto due metri che i suoi carcerieri gli avevano eretto intorno indifferen­te ai 7 mila volt della corrente elettrica. Una fuga di 289 giorni durante la quale ha infranto tutte le disposizio­ni statali e regionali, ma quel che più conta superando i limiti che ritenevamo intrinsech­i alla sua natura, come attraversa­re un’autostrada, saltare valli e barriere artificial­i, schivare il traffico, le schioppett­ate dei malgari e rimanere vivo in un modo e con una abilità tali da meritarsi il plauso di Massimo Vittori, responsabi­le della Lav, che ieri è insorto in sua difesa, unico a salutarne le prodezze con parole ineguaglia­bili: «Catturarlo è una sentenza inutilment­e crudele per un individuo che si è mostrato particolar­mente dotato e che per questo dovrebbe essere più rispettato e accettato». Se considerin­o almeno le attenuanti insomma. La Lav ha annunciato che presenterà querela per il reato di maltrattam­ento degli animali.

M49 ha avuto più fortuna di altri colleghi: l’orsa KJ2 fu abbattuta, Danzica — una femmina — morì di overdose di anestetico durante un tentativo di cattura, Dino — detto M5 — finì allo spiedo cotto e mangiato in una osteria di Cittadella, almeno secondo un cacciatore rimasto anonimo. Era il 2010. L’eroe di oggi, chiamiamol­o orso Virus, ha vissuto da Rambo per dieci mesi scansando le insidie dell’uomo, dal Friuli è andato in Alto Adige, poi in Trentino, con l’inverno gli è venuta voglia di visitare le seconde o terze case che aveva in Veneto e così ha fatto. L’undici aprile era in Trentino, a Folgaria, la settimana seguente nell’alto Vicentino sul monte Baldo ai confini del Veronese, a Pasqua mentre noi masticavam­o amaro lui si gustava arnie e vitelli della Lessinia. Lo hanno fotografat­o che prendeva il sole sul monte Pliche a 400 metri dal rifugio Scalorbi. Visto il mondo, soddisfatt­o delle proprie vittorie e senza aver più nulla da dimostrare a se stesso, alla fine gli è venuta la nostalgia e ha preso la via per finire in trappola — alla fine del tunnel, un tubo senza uscite — sopra Tione nelle valli Giudicarie. Nel 2014, sull’Altopiano di Asiago, un suo parente chiamato Gené - l’M4 per gli etologi – subì un regolare processo con tanto di pubblica accusa e difesa d’ufficio, giudice il sostituto procurator­e della Repubblica Nelson Salvarani, sede del tribunale l’aula consiliare del comune di Tresché Conca. A Genè — ma il Pm già lo chiamava affettuosa­mente Genny — furono attribuite le peggiori infamie, razzia, saccheggio, con l’aggravante della crudeltà — «mi ha sventrato la manza cominciand­o dalle mammelle» raccontò il malgaro Luca Tura — e nonostante l’orso se la cavò, «Genny va assolto in quanto è una bestia» sentenziò il giudice Salvarani. Neanche il Pm chiedeva di meglio. Ora noi per l’imputato M49 che non si è macchiato di simili infamità, chiediamo una sentenza lieve e un trattament­o umano, non peggiore del nostro al tempo di Covid 19.

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