LA LIBERTÀ DEL RIBELLE FINISCE IN LOCKDOWN
M49 poteva diventare un simbolo, così non è stato. Poteva rappresentarci.
Poteva finire male, beccarsi una palla, mangiare un boccone avvelenato, poteva diventare una star persino, e invece al povero M49 non resta che la sua sigla da agente segreto – e già questa è una ingiustizia, i suoi compagni di merende almeno un nome l’avevano, Gené, Francesco, Dino, Danzica – una fedina penale sporca e una fine ingloriosa: preso, bloccato in fondo ad una trappola per topi, solo un po’ più grande. Ha violato il lockdown di tre regioni scorazzando per il Friuli, Trentino Alto Adige e il Veneto in barba alle restrizioni con l’aggravante di essersi deliberamente tolto il collare radio, il dispositivo «Immuni» appositamente concepito per orsi come lui insofferenti delle restrizioni e come noi sensibili ai confinamenti ora che lo dobbiamo mettere. M49 poteva diventare un simbolo, rappresentarci — l’orso si presta, animale nobile e possente, araldico, da sempre sugli scudi di re e imperatori — l’avremmo fatto alfiere del nostro tempo, simbolo del nostro bisogno, poteva essere il Papillon del Coronavirus, un peloso Montecristo in fuga dal confinamento domestico, inimitabile. E infatti ecco come non è andata: preso, in anticipo sui tempi, disassato rispetto alle nostre necessità profilattiche, ancora troppo lontano dalle nostre paure per poterne rappresentare l’insofferenza, irrilevante anche rispetto alla politica che solo adesso prova a fargli il verso e brontola contro la bulimia da Dpcm. All’orso M49 è stata negata la ribalta: ecluso dalla passarella mediatica riservata un tempo ai suoi fratelli, è un eroe dimenticato, inutile alle simbologie della nostra stagione. Un peccato, perché di orsi così non ce ne sono molti in giro. Già recidivo, catturato al primo tentativo di fuga e ripreso il giorno dopo, nonché ricondotto nello stabbio che occupava a Casteler a Udine, riprova la fuga il 14 luglio alle 5 di mattina con successo: si libera scavalcando il muro alto due metri che i suoi carcerieri gli avevano eretto intorno indifferente ai 7 mila volt della corrente elettrica. Una fuga di 289 giorni durante la quale ha infranto tutte le disposizioni statali e regionali, ma quel che più conta superando i limiti che ritenevamo intrinsechi alla sua natura, come attraversare un’autostrada, saltare valli e barriere artificiali, schivare il traffico, le schioppettate dei malgari e rimanere vivo in un modo e con una abilità tali da meritarsi il plauso di Massimo Vittori, responsabile della Lav, che ieri è insorto in sua difesa, unico a salutarne le prodezze con parole ineguagliabili: «Catturarlo è una sentenza inutilmente crudele per un individuo che si è mostrato particolarmente dotato e che per questo dovrebbe essere più rispettato e accettato». Se considerino almeno le attenuanti insomma. La Lav ha annunciato che presenterà querela per il reato di maltrattamento degli animali.
M49 ha avuto più fortuna di altri colleghi: l’orsa KJ2 fu abbattuta, Danzica — una femmina — morì di overdose di anestetico durante un tentativo di cattura, Dino — detto M5 — finì allo spiedo cotto e mangiato in una osteria di Cittadella, almeno secondo un cacciatore rimasto anonimo. Era il 2010. L’eroe di oggi, chiamiamolo orso Virus, ha vissuto da Rambo per dieci mesi scansando le insidie dell’uomo, dal Friuli è andato in Alto Adige, poi in Trentino, con l’inverno gli è venuta voglia di visitare le seconde o terze case che aveva in Veneto e così ha fatto. L’undici aprile era in Trentino, a Folgaria, la settimana seguente nell’alto Vicentino sul monte Baldo ai confini del Veronese, a Pasqua mentre noi masticavamo amaro lui si gustava arnie e vitelli della Lessinia. Lo hanno fotografato che prendeva il sole sul monte Pliche a 400 metri dal rifugio Scalorbi. Visto il mondo, soddisfatto delle proprie vittorie e senza aver più nulla da dimostrare a se stesso, alla fine gli è venuta la nostalgia e ha preso la via per finire in trappola — alla fine del tunnel, un tubo senza uscite — sopra Tione nelle valli Giudicarie. Nel 2014, sull’Altopiano di Asiago, un suo parente chiamato Gené - l’M4 per gli etologi – subì un regolare processo con tanto di pubblica accusa e difesa d’ufficio, giudice il sostituto procuratore della Repubblica Nelson Salvarani, sede del tribunale l’aula consiliare del comune di Tresché Conca. A Genè — ma il Pm già lo chiamava affettuosamente Genny — furono attribuite le peggiori infamie, razzia, saccheggio, con l’aggravante della crudeltà — «mi ha sventrato la manza cominciando dalle mammelle» raccontò il malgaro Luca Tura — e nonostante l’orso se la cavò, «Genny va assolto in quanto è una bestia» sentenziò il giudice Salvarani. Neanche il Pm chiedeva di meglio. Ora noi per l’imputato M49 che non si è macchiato di simili infamità, chiediamo una sentenza lieve e un trattamento umano, non peggiore del nostro al tempo di Covid 19.