Corriere di Verona

Il turismo è ancora lontano la città d’acqua resta pallida ma quella di terra sorride

Viaggio tra opere e pensieri di un popolo che prova a rimettersi in marcia. Ma i confronti col passato restano impietosi: «L’anno scorso qui era esaurito»

- Emilio Randon

Il primo giorno di negozi e locali tra chi comincia a crederci e chi dispera

Venezia arriva all’apertura del lunedì come la domenica di Enzo Jannacci, «sempre in ritardo, pallida e senza fiato», nel modo peggiore che le poteva capitare così che, di tutte le metafore che si possono inventare sull’apertura mentale, d’animo, di cuore -, a Venezia manca la più necessaria: quella del portafogli­o. Non ci sono clienti, non turisti, le gondole sonnecchia­no alla fonda e gli alberghi sono vuoti per cui l’annunciata apertura sembra il verso del mimo con le parole, la mani sulle vetrate a togliere uno sporco ormai mineralizz­ato, da tanto nessuno lo lava e le commesse montano la guardia all’uscio. Aprono per le pulizie le boutique a conduzione famigliare, non i grandi marchi, i negozi di maschere arieggiano i locali e tutti - gestori di bar e negozi - pensano solo al conto degli affitti che dovranno pagare dopo tre mesi che non vedono un euro.

«Ho fatto uno sforzo di volontà questa mattina per uscire di casa – dice bene la signora veneziana all’amica in campo San Barnaba – l’isolamento era diventato una abitudine così consolidat­a che oggi stentavo a riprendere le vecchie, invece si può, anzi di deve fare. Per me è una conquista». Un torpore e un falso movimento che l’uomo alla cassa del garage Sant’Andrea riassume così: «Oggi è il 18 maggio ed è come fosse un normale giorno di novembre, l’anno scorso, allo stesso periodo, qui non c’era un posto libero».

Venezia sconta la sua eccezional­ità e non fa testo irrisolta com’è tra con i turisti e senza turisti. E mai come questo lunedì pare così distante dalla sorella di terraferma. Se la prima è comatosa, la seconda è vigile, se l’una dispera l’altra sorride, ma soprattutt­o in terraferma pare ci si creda di più. Già dal barbiere, nelle file davanti al negozio di telefonini, nell’abbondanza agiata con cui tutti parcheggia­no sulle linee blu senza prendere la multa (a piazzale Roma no, il dazio orario si paga ancora). Mestre, a differenza di Venezia, respira profondo e si concede almeno la speranza del rilancio. Luca e Giorgio, barbieri di via Piave, hanno prenotazio­ni fino a giovedì prossimo, la tricologia ha le sue leggi e non ha mai smesso di funzionare, per cui accade che la domanda c’è, si è scaricata di colpo con una voglia aggiuntiva di smetterla con il pigiama e uscire di casa, rendersi presentabi­li almeno e mettersi un po’ in pari con l’autostima maschile. Due le postazioni e due sono rimaste, «le regole possono semIphone brare strane ma queste sono: lavarsi la barba a casa prima di venire qui a farsi i capelli, se uno chiede il doppio servizio prima i capelli e poi la barba. Annoto le prenotazio­ni come vuole la legge. Come faccio a sapere se uno si è lavato la testa? Non lo annuso, esperienza profession­ale, fiducia e confidenza con il cliente», nella fattispeci­e un signore in piena trance indotta da digitazion­e maschile. Il barbiere è da sempre faccenda da maschi, andarci è frequentar­e l’unico posto in cui due uomini si danno il piacere senza scandalo . «Due mesi, due centimetri, è il normale ritmo della crescita» mugola il cliente, che si può leggere anche come metafora di una necessaria ripresa economica.

Ma l’occhio di un qualsiasi «compro oro» vale di più, in tal senso va ascoltato come si ascolta la Pizia, perché è qui che più forte batte il cuore dei deboli ed è qui che le ansie pendolano tra paura e speranza, in un angolo di via Piave un po’ nascosto, un «compro oro» che ieri non aveva clienti e che anzi non ne vedeva uno dall’otto maggio scorso giorno in cui ha potuto aprire. «La gente che aveva bisogno l’oro se l’è già impegnato tutto al Monte di Pietà incassando 1011 euro al grammo con interessi che possono contare fino al 15% del valore impegnato. Da noi l’oro lo paghiamo 35 eppure non c’è partita: il sentimento di riprenders­i un giorno quel che era di famiglia batte la convenienz­a economica. Prevedo due mesi, tempo al tempo, quando la povertà tornerà a farsi sentire allora torneremo a vedere i clienti». I debiti come i capelli non smettono mai di crescere, per questo su entrambi i lati di via Piave, sono in due quelli che aspettano che il ciclo della natura faccia il suo corso e anche quello dell’economia.

Capelli, cellulari, anche gli e gli Smartphone col passare del tempo si deprimono e, dopo tre mesi, chiedono un po’ di sollievo, una sostituzio­ne, un back up, almeno a giudicare dalla fila che si è formata davanti a Tian Tian, negozio cinese specializz­ato dove c’erano 20 clienti in attesa di curare l’arnese stressato da tre mesi di ininterrot­te comunicazi­oni Covid-19.

Ma il posto dove meglio si perde la connession­e con la realtà resta il bar, il luogo felice della riapertura dove è lecito consumare al banco ma non al buffet, qualsiasi cosa voglia dire e che ognuno interpreta a modo suo: «Per me è che non puoi più servirti da solo degli ‘spuncioni’, te li devo dare io e devi mangiartel­i fuori, altra cosa è il caffé con la brioche che puoi mangiare al banco». Al ponte dei Pugni, a Venezia, la regola è diversa, viene interpreta­ta per abolizione più o meno così: «Il buffet non esiste più, nessuno si prende gli spuncioni, non in età moderna almeno».

Altro punto di osservazio­ne, davanti al caminetto dove Sandro Pertini e i suoi sedevano in otto mentre ora c’è posto solo per tre, 100 centimetri da spalla a spalla misurati e igienizzat­i dal maître Pasquale Lampis: «Guanti, detergente e mascherina obbligator­i, con quest’ultima che puoi levartela se devi andare in bagno ma non se lungo il tragitto ti fermi a salutare un amico al tavolo accanto». Il «Do Forni» aprirà solo giovedì, con il direttore di sala indaffarat­o che chiede al «paron» se, oltre i vasi sui tavoli, deve igienizzar­e anche le orchidee. I posti erano 150, ora sono 70, le complicazi­oni sono andate all’inverso,«con gli incastri e le combinazio­ni è come giocare a tetris». «Ecco, in queste condizioni, l’unico ad aprire sono io». Eligio Paties, 77 anni, proprietar­io del celebre ristorante ieri non aveva clienti, solo affanni: «E come potrei averne? il dcpm l’hanno fatto ieri dimentican­do che un ristorante deve comprare la roba prima di farla mangiare ai clienti».

Per un Harry’s Bar che chiude, il «Do Forni» riapre: «Se non altro per dare un segnale a questa città – spiega il proprietar­io – apro sapendo che ci rimetterò e lo faccio mentre altri colleghi tengono chiuso per lo stesso motivo. Facile riaprire quanto tutto sarà normale, bisogna farlo adesso e con coraggio, dire che Venezia è viva».

Paron Eligio si sente un pioniere: «Già vedo qualche turista in giro e ho ricevuto le prime prenotazio­ni, clienti abituali, veneziani e gente che viene dall’entroterra. Mi metto la mano sul cuore e dico che la città va aiutata, aperta. Dopo l’acqua granda mancano solo le cavallette, ma a Venezia i clienti non mancherann­o mai, solo bisogna dar loro sicurezza, ospitalità e sopratutto non lasciar loro l’impression­e di essere ladrati».

Ha anche comprato la macchina che misura automatica­mente la temperatur­a ai clienti, «la metto all’entrata. La verità è che Venezia poggia su un’economia fragile, con la gelata il costo degli gli affitti rischia di ucciderla».

Paties Io riapro anche se andrò in perdita. In molti tengono chiuso per lo stesso motivo. Bisogna dire che Venezia è viva

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Si alzano le serrande dei negozi di Venezia (qui siamo in piazza San Marco) ma non tutte. All’appello mancano i turisti
(foto Vision) Torpore Si alzano le serrande dei negozi di Venezia (qui siamo in piazza San Marco) ma non tutte. All’appello mancano i turisti
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