Distretti, il fronte strategico
Ebbene, quali primissime indicazioni si possono trarre? È più che giusto prevedere indennizzi (aiuti a fondo perduto) alle imprese, a partire da quelle piccolissime, resi possibili dal nuovo quadro tracciato dall’Ue per gli «aiuti di Stato». Con questo provvedimento si cerca, infatti, di offrire un parziale ristoro alle imprese che hanno subito crolli significativi (un terzo rispetto all’anno precedente) dei loro fatturati. Ancora: è più che giusto prevedere aiuti pubblici al capitale (equity) delle Pmi, anche in questo caso dedicati alle imprese colpite da cali di almeno il 33 per cento del volume d’affari; aiuti che andranno rimborsati in sei anni rispettando tutta una serie di condizioni.
Sembra, dunque, prevalere un’impostazione basata su criteri negativi (cali del fatturato dovuti al lockdown), criteri che sono, giova ripeterlo, assolutamente necessari in considerazione della profondità della crisi che ha colpito la quasi totalità dei settori produttivi. Ma criteri non sufficienti se vogliamo indirizzare l’economia italiana – e la sua industria, in particolare - verso le necessarie trasformazioni strutturali.
Un’impostazione basata anche su criteri che possiamo definire positivi dovrebbe prevedere forme speciali di incentivazione della mano pubblica (ingresso nel capitale, prestiti garantiti, ecc.) per almeno i due seguenti casi. Primo, operazioni di fusione e acquisizione (ma anche joint-venture) fra imprese che abbiano luogo all’interno di un distretto industriale e/o fra imprese appartenenti a distretti legati da relazioni di complementarietà. Secondo, strategie di espansione delle nostre imprese distrettuali verso le regioni del Sud, dove le economie di agglomerazione (bacini di lavoratori qualificati, produzione in loco di input intermedi, rapida circolazione della conoscenza) non hanno dispiegato pienamente i loro effetti, pur non mancando al Sud storie di successo sia di distretti che di medie imprese (si pensi ai Champions de L’Economia del Corriere della Sera).
Limitandoci, per semplicità, all’esame di alcuni dei principali distretti veneti (occhialeria di Belluno, concia di Arzignano, meccanica strumentale di Vicenza, legnoarredo di Treviso, calzatura sportiva di Montebelluna), possiamo intravvedere un tratto caratteristico; ossia, la presenza in ognuno di essi di imprese leader di filiera: imprese che hanno ampiamente superato la piccola dimensione e sono, già oggi, o medie o grandi. Lo stesso fenomeno si sta verificando, in proporzioni più o meno ampie, in molti altri distretti della regione (pensiamo al tessile-abbigliamento). E l’affermazione di veri e propri big player è il tratto distintivo dei distretti emiliani, a cominciare dai principali (meccatronica di Reggio Emilia, piastrelle di Sassuolo, macchine per imballaggio di Bologna).
Investire sul rafforzamento delle relazioni fra queste imprese leader e la moltitudine di micro e piccole imprese – molto spesso artigiane - che popolano tutti i nostri distretti industriali (in regione e fuori regione), al fine di superare insieme la crisi e tendere verso un consolidamento dimensionale del nostro capitalismo, dovrebbe essere il compito di una moderna politica industriale nazionale. Che richiede pazienza e perizia. Una policy, però, che continua a mancare: a Roma è più semplice pensare alla ricostituzione dell’IRI o della Gepi.