Sì all’aumento, Cattolica crolla in Borsa: -16%
Passa l’operazione da 500 milioni voluta da Ivass: azioni giù del 17%. Con Minali causa da 9,6 milioni
Cattolica una giornata nera: crolla in Borsa con un -16%, dopo il sì della società all’aumento di capitale da cinquecento milioni voluto da Ivass, che spinge verso la spa.
Cattolica crolla in Borsa dopo il sì al diktat Ivass sull’aumento di capitale da 500 milioni. La giornata più nera, per la società assicurativa veronese, dopo le indiscrezioni di sabato sulla durissima lettera dell’autorità di vigilanza assicurativa che imponeva la maxi-ricapitalizzazione entro il 30 settembre, è scattata subito, ieri mattina. E ha condotto alla fine il titolo a perdere il 16,89%, il calo di giornata più pesante di tutto il mercato, scendendo a 3,43 euro, dopo aver toccato il minimo storico di 3,3 euro. Tutto questo dopo che Cattolica con una nota, prima dell’apertura di Borsa, aveva confermato il contenuto della lettera Ivass filtrata sabato e ufficializzato l’esito del cda straordinario di domenica sera, con il sì alla richiesta di ricapitalizzazione. «Il cda ha preso doverosamente atto delle indicazioni - diceva la nota e ha dato mandato al management di preparare un piano nei tempi richiesti, al fine di rafforzare la solvibilità».
Un sì, quasi un «Obbedisco», non senza qualche distinguo in controluce. La nota rivendica l’aumento da 50 milioni già deciso su Bcc Vita, la joint venture con Iccrea e il piano allo studio per l’altra società con Banco Bpm, Vera Vita. Soprattutto rivela come nel cda del 22 maggio si fosse già discusso del piano di un aumento da 200 milioni, insieme ad altri 200 di bond convertibile, che avrebbero determinato «un’adeguata patrimonializzazione, permettendo di finalizzare le attività di M&A previste entro il 2021». Insomma, Cattolica si stava già muovendo e 200 milioni sarebbero bastati per mettersi in sicurezza e attendere la fine della tempesta Covid, e usare poi quel capitale, a quel punto in eccesso, per acquisizioni. Un modo, forse, per dire che il riferimento alle acquisizioni per giustificare la delega chiesta in assemblea era reale e non un modo per coprire altri problemi. E forse per far capire (oltre a dichiarare la dimensione ritenuta gestibile dell’operazione), che le richieste Ivass sono eccessive.
È toccato poi al direttore generale, Carlo Ferraresi, difendere la linea, in una lettera ai dipendenti: «Il nostro management - rivendica - fin dall’inizio della crisi Covid-19, ha tenuto attentamente monitorato solvibilità e liquidità del gruppo, in questo momento intorno al 130%» (il minimo richiesto è il 100%). E ancora: «La società mantiene robusti fondamentali, non ha mai avuto problemi di liquidità e lo stato attuale della Solvency non pregiudica la capacità industriale. Il capitale economico dell’azienda è intatto».
Ma la botta è enorme, soprattutto sul fronte della reputazione, di fronte alla linea dura di Ivass che chiede subito 500 milioni di ricapitalizzazione, mettendo oltretutto in luce la rischiosità di una fetta rilevante di investimenti.
Senza contare l’altra tegola, quantificata ieri dalla società in 9,6 milioni di euro, della causa civile intentata dall’ex amministratore delegato Alberto Minali davanti al tribunale delle imprese di Venezia, notificata venerdì in parallelo alle dimissioni dal cda. In sostanza, secondo quanto si riesce a ricostruire, nelle 130 pagine dell’atto di citazione firmato dall’avvocato Carlo Pavesi, il manager sostiene l’assenza di giusta causa nel ritiro delle deleghe di fine ottobre e chiederebbe il pagamento dei 30 mesi di emolumenti fino alla scadenza naturale dell’incarico, nel 2022, dei bonus e del trattamento di fine rapporto, con una quota, tra il 10 e il 20%, di danno reputazionale.
Così, mentre tornano a diffondersi rumors sull’arrivo come amministratore delegato dell’ex manager di Generali e Itas, Raffaele Agrusti, per altro date come non realistiche da fonti vicine alla società, l’attenzione si sposta a come Cattolica potrà eseguire l’aumento, verosimilmente tra agosto e settembre, visto che il piano arriverà entro fine luglio. Il cda dovrebbe iniziare a discuterne, in vista dell’assemblea del 27 giugno, il 4 giugno, insieme alla causa Minali.
Le condizioni di esecuzione appaiono improbe. Sul fronte degli attuali soci c’è da considerare il malumore per la diluizione sulle azioni. Facendo due conti a spanne, un aumento da 500 milioni ai prezzi d oggi, 3,4 euro, con 147 milioni di azioni nuove da emettere rispetto agli attuali 174, provocherebbe una riduzione del patrimonio, per chi non investisse, del 46%. Che salirebbe quasi al 60% considerando uno sconto sul prezzo del 37% come quello applicato nell’ aumento di capitale del 2014, determinando così un prezzo vicino ai 2,2 euro e 227 milioni di nuove azioni da emettere.
Soprattutto il diktat Ivass fa rientrare dalla finestra in maniera drammatica, la questione della trasformazione in spa di Cattolica. Condizione data per necessaria già a ottobre, nella discussione del progetto, poi accantonato, di un aumento, sempre sui 500 milioni, per la gara sulla bancassicurazione di Ubi.
L’evoluzione dei fatti è tutta ancora da scrivere. Ma almeno in linea teorica è impossibile non vedere il precedente degli aumenti di capitale poi falliti di Bpvi e Veneto Banca. Dove la trasformazione in spa era stata posta come condizione di chi garantiva l’acquisto delle azioni invendute. E nel caso di Cattolica basterebbe una quota rilevante, anche di minoranza, di azioni inoptate per cambiare radicalmente il comando e rendere contendibile la società.