L’episodio emerge dalla sentenza di condanna del clan Multari. Il pentito assicura: «In Veneto la ‘ndrangheta va a mille»
«L’ultimo periodo era in Veneto che (gli ‘ndranghetisti, ndr) andavano a mille». È il 30 maggio 2019. A parlare al magistrato è il pentito delle cosche crotonesi Antonio Valerio, finito nell’inchiesta Aemilia e ora diventato collaboratore di giustizia.
Alcuni passi della sua lunga deposizione emergono ora, per la prima volta, inseriti nelle 72 pagine con le quali il giudice veneziano David Calabria motiva la decisione di condannare quattro componenti della famiglia Multari, accusati dalla Procura antimafia di essere legati alla Cosca Grande Aracri e di aver spadroneggiato con metodi mafiosi tra le provincie di Verona, Vicenza e Venezia, con estorsioni, violenze e minacce. A gennaio il verdetto: 9 anni di reclusione per il boss Domenico «Gheddafi» Multari; 3 anni e 2 mesi al fratello Fortunato Multari; 2 anni e 8 mesi al figlio Alberto e 2 anni all’altro figlio, Antonio.
Nella sentenza, depositata nelle scorse settimane, si fa riferimento alle confessioni di Valerio, stando al quale il Veneto è «luogo di attuale elezione per l’espansione criminale», scrive il giudice. A sentire il pentito, nella nostra regione la ‘ndrangheta spadroneggia: «Usura, false fatturazioni, bancarotte, truffe», elenca. Ma si spinge oltre, indicando anche nomi e cognomi dei presunti boss: Valerio - scrive il magistrato - ha «specificamente attribuito a Francesco Frontera (crotonese residente in Veneto, già finito in diverse inchieste, ndr ) il ruolo di vertice dell’organizzazione nel Veronese, e ha precisato che nella zona di Vicenza i referenti erano i Multari».
Ne è sicuro: «Loro fanno parte della ‘ndrangheta», fa mettere a verbale.
Fino al suo arresto, Domenico Multari abitava a Zimella, nella Bassa Veronese, e l’inchiesta - condotta dai carabinieri
La villa in cui abitava Domenico Multari a Zimella, nel Veronese del Ros di Padova e coordinata dalla pubblico ministero Paola Tonini - ha dimostrato come in paese fossero in tanti a riconoscergli il ruolo di capo-clan. Le sue vittime vedevano in lui «l’effettiva espressione della criminalità organizzata, le cui modalità di condotta sono tali da invocare la forza intimidatrice dell’agire mafioso». Uno stile da vero boss, che ostentava «in modo finanche provocatorio proprio per ingenerare una condizione di diffusa soggezione».
E così, era a lui che gli abitanti del paesino veneto si rivolgevano se avevano subito un furto e volevano recuperare la refurtiva. In una intercettazione, un veronese che gli chiede aiuto arriva a definirlo «il giudice», alludendo al fatto che veniva perfino chiamato a fare da pacificatore tra imprenditori in lite per questioni di soldi. Oppure - è il caso di una negoziante allarmata dalla presenza di un automobilista dal fare sospetto gli telefonavano per tenere alla larga presunti malintenzionati.
Dalla sentenza emerge un episodio che lo stesso giudice definisce «inquietante»: un testimone racconta d’aver accompagnato il capofamiglia in una zona al confine col Padovano e di aver assistito all’incontro tra «Multari e il maresciallo della locale stazione dei carabinieri. Nell’occasione i due si erano abbracciati e poco dopo, rientrando in auto, gli aveva riferito che il militare l’aveva appena avvisato che gli stava arrivando un ordine di arresto, cosa che in effetti aveva avuto luogo».