Il padre a Farah: «Rifiuti la nostra cultura, vattene oppure ti uccido»
Il giudice che ha condannato il papà di Farah: così puniva la figlia se non obbediva
Nel 2008, è arrivata a ventenne a Verona dal Pakistan con i familiari ma soprattutto con le rigidissime imposizioni della loro cultura natìa: a Farah, scrive il giudice Laura Donati che ha condannato a 2 anni il padre violento, «era impedito di vedere le amiche» e venivano «imposti abiti della tradizione pakistana altrimenti erano botte». Così si legge nella motivazione della sentenza emessa un mese fa.
Nel 2008, è arrivata a ventenne a Verona dal Pakistan con i genitori e i fratelli ma soprattutto con le rigidissime imposizioni della loro cultura natìa: a Farah, scrive il giudice Laura Donati che esattamente un mese fa (l’8 luglio) ha condannato il padre violento, «era impedito di ricevere in casa amiche o compagne e di frequentare le loro abitazioni» e veniva «imposto di vestire abiti della tradizione pakistana per andare a scuola o appena rientrata a casa, altrimenti erano botte».
Due gli anni di reclusione che dovrà scontare (con pena sospesa) il papà Hussain Tanveer, difeso dal legale Mattia Guidoni, per le sistematiche «vessazioni fisiche e psicologiche» subìte dalla figlia, tutelata come parte civile al processo dall’avvocato Sara Montagna e che ora dovrà essere risarcita (in via provvisionale) dal genitore con 10mila euro per l’escalation di maltrattamenti di cui il 62enne è stato ritenuto responsabile in primo grado. Alla figlia, ricostruisce il giudice nelle motivazioni appena depositate a sostegno della condanna, l’imputato «consentiva di uscire di casa solo per frequentare la scuola e per partecipare ad altre attività strettamente collaterali».
In ogni caso, la ragazza «doveva» sempre «dire dove andava, con chi andava e perché doveva uscire». Addirittura, «in diverse occasioni il padre le aveva imposto la presenza del fratello quando doveva recarsi da qualche parte oppure ricostruisce il magistrato - il genitore l’attendeva lungo la strada di ritorno, per verificare soprattutto il rispetto degli orari di rientro che le erano dati, altrimenti erano scenate e per punizione le veniva ritirato il telefono e imposto di non uscire più da sola». Inoltre Farah «non doveva frequentare ragazzi perché il suo destino sarebbe stato quello di sposare un pakistano scelto dalla sua famiglia come da tradizione. Se il padre veniva contraddetto - si legge nella sentenza - ricorreva alla violenza verbale e/o fisica esercitata non solo su di lei ma anche sulla madre e la sorella». Un esempio? Nel 2009 il genitore «aveva forzato la porta di ingresso poiché Farah e la sorella non avevano sentito suonare il campanello e, una volta entrato in camera da letto, aveva le aveva prese per i piedi, tirandole con forza giù dal letto, rialzandole e schiaffeggiandole e, infine, sbattendole contro la parete». Di fronte a piccoli inconvenienti, il capofamiglia «reagiva in modo sproporzionato», come quando nel 2017 «non avendolo udito suonare il campanello al suo rientro, Farah era stata picchiata e buttata fuori da casa, di sera, proera vocando a sua difesa la reazione della madre e della sorella, a sua volta colpita con una sberla in faccia, sberle che riceveva anche lei».
Con il tempo, racconta il giudice, Farah «per proteggere se stessa approfittava della possibilità di frequentare la biblioteca» dove «incontrava il proprio ragazzo Cristian (e attuale compagno di vita, ndr) di cui era innamorata dall’età di 12 anni». Ma il 18 settembre 2017 accade il finimondo: la coppia «era andata al centro commerciale Adigeo e qui si era accorta della presenza del cugino che aveva scattato delle fotografie» a Farah e Cristian urlando «che si sarebbe vendicato mandando quelle immagini sia al padre che allo zio» di lei, «la quale poi avrebbe dovuto vedersela con loro». Presa dal panico, la ragazza «si fatta accompagnare immediatamente a casa», dove «il padre le diceva “vattene sennò ti uccido perché non vuoi accettare la nostra cultura”».
Quest’ultimo è solo un esempio tratto dalle «plurime vessazioni fisiche e soprattutto psichiche di accertata offensività - sottolinea il giudice Donati - poste in essere dall’imputato nei confronti della figlia aventi carattere di obiettiva prevaricazione, dovendosi qualificare tali gli schiaffi, le minacce e le punizioni dirette a reprimere atti di ribellione della ragazza alla volontà di sottomissione pretesa dal padre secondo gli schemi della cultura di origine, in forza dei quali la femmina doveva soggiacere alle tradizioni». Nemmeno «la circostanza che l’uomo tenesse agli studi della figlia può essere interpretata a suo vantaggio perché, come hanno riferito gli altri figli, Hussain Tanveer aveva già programmato anche sotto questo aspetto il futuro di Farah che avrebbe dovuto intraprendere una professione utile per l’azienda di famiglia». Alla figlia, avrebbe imposto senza possibilità di fuga «quella cultura che non prevede altro futuro se non sposare un uomo scelto dalla famiglia».
Una quotidianità scandita da «metodi educativi violenti ed emersa con certezza dalla deposizione dell’assistente sociale volontaria del Centro Antiviolenza Petra, presso cui - rivela la sentenza - Farah era stata condotta da personale della Questura il 21 settembre 2017»: secondo l’operatrice,«a fronte dell’offerta di sostegno del Centro Petra offerto alla sorella di Farah, la stessa reagiva duramente, affermando testualmente: “Farah non ha capito nulla! Bisogna sposarsi, bisogna ubbidire!”». Invece Farah ha denunciato il padre, scegliendo la libertà.
I divieti
Le era impedito di ricevere in casa amiche o compagne e anche di frequentarle
Gli obblighi
Le veniva imposto di vestire abiti della tradizione pakistana oppure erano botte