L’arte e la ripartenza Le mostre da visitare
Viaggio tra i luoghi della cultura che hanno riaperto, prorogando mostre, riprogrammando eventi o mettendo in scena i nuovi progetti nati durante il lockdown
A Casa Cavazzini ripercorriamo la carriera di Calligaro fra tavole satiriche e opere pittoriche
Villibossi riesce a restare in equilibrio fra natura e artificio, organico e razionale, carnalità e astrazione
«N ulla è perduto». Il titolo quasi profetico che a Illegio hanno dato alla loro mostra annuale, sembra spronare tutti i luoghi di cultura del Friuli Venezia Giulia. E che quel monito provenga da un piccolo borgo di 360 abitanti, abbarbicato tra i monti della Carnia, suona ancora più prezioso. È là da cui bisogna partire, per fare questo piccolo viaggio tra i luoghi della cultura che hanno voluto (o potuto) riaprire, prorogando mostre, riprogrammando gli eventi o sfornando nuovi progetti nati in quarantena. Il paese di Illegio (Udine) si è trasformato negli ultimi 15 anni in una calamita culturale. L’attenzione internazionale che è stato capace di suscitare ne ha fatto un caso davvero unico. Lo dimostra anche la mostra visitabile fino al 13 dicembre: «Nulla è perduto» vanta la collaborazione di Sky Arte, Ballandi Arts e soprattutto Factum Arte di Madrid, un gioiello di impresa europea che coniuga arte e high-tech. Il risultato è la ricostruzione minuziosa di sette opere andate perdute. Rubate, come il «Concerto a tre» di Johannes Vermeer; trafugate dai nazisti come «La Torre dei cavalli azzurri» di Franz Marc e «Myrto», realizzato da Tamara de Lempickai. Avvolte nelle fiamme, per motivi diversi, come «Vaso con cinque girasoli» di Vincent van Gogh e «Medicina», dipinta da Gustav Klimt e pure una delle «Ninfee» di Claude Monet. «Ritratto di Sir Winston Churchill», realizzato nel 1954 da Graham Sutherland, è stata fatta distruggere da Lady Clementine Churchill un anno dopo. Un’esposizione sofisticata, quella di Illegio: messinscena sbalorditiva e ricostruzione filologica, riporta nel mondo visibile opere sottratte a un al di là che si credeva ineluttabile. Nulla è perduto, dunque.
Udine
In questo andirivieni nel tempo, è affascinante l’operazione sul Tiepolo in corso al Museo friulano della fotografia, all’interno del Castello di Udine. Ricorrono i 250 anni dalla morte: il pittore icona del Settecento veneziano è riletto attraverso la gran mole di scatti che documentano le celebrazioni per il bicentenario della morte, culminate con una grande esposizione. Era il 1971 e «un evento straordinario si svolse in concomitanza con l’apertura di Villa Manin dopo importanti lavori di restauro — spiegano al Museo —. L’allestimento richiese un intenso lavoro organizzativo che impegnò le istituzioni e una fitta rete di contatti con musei, collezionisti e studiosi di tutto il mondo». «Udine espone Tiepolo», curata da Silvia Bianco, racconta lo sforzo corale compiuto dalla città attorno a Tiepolo. Una «mostra su una mostra» diventa così il filtro per osservare con un’altra lente l’epopea pittorica dell’artista veneziano, di cui la città friulana si fregia essere capitale.
Codroipo
Arte e cronaca finiscono per sfumarsi. Questo ci porta ad Angiolino. O meglio, Alfonsino Filiputti detto Angiolino (1924-1999). Nato a San Giorgio di Nogaro, autodidatta, ha cominciato a ritrarre prima i racconti di padre e zio impegnati in mare nella Seconda guerra mondiale e poi la Resistenza. Ha continuato, con le sue cronache visive a fermare gli eventi, dall’alluvione del ’66 al terremoto di dieci anni dopo. Ognuna delle 300 tempere, ora visibili a Villa Manin (Passariano di Codroipo), è accompagnata da una micro-storia, come se Angiolino fosse avido di raccontare e cercasse orizzonti nuovi tra immagini e parole. «Angiolino. Un cantastorie con il pennello» si intitola il progetto espositivo curato da Dino Barattin (fino al 27 settembre); ci mostra il registro dell’illustratore e il passo di un futurista. Giancarlo Pauletto scrive che ciò che colpisce è «l’immediatezza e l’efficacia comunicativa dei suoi fogli, tanto che risulta difficile staccarsi dalla loro visione».
Trieste
Autore altrettanto obliquo è stato Marcello Dudovich (1868 – 1962), che ha manipolato i canoni di fotografia e cartellonistica, riscrivendone i perimetri visivi. A lui è dedicata l’esposizione in corso al Castello di Miramare di Trieste (fino al 10 gennaio). Come spiegano gli organizzatori, che qui presentano oltre 300 lavori, Dudovich «fu un assoluto innovatore nel suo campo e costituisce uno dei riferimenti più importanti nella storia del manifesto. Il percorso espositivo offre un affondo sul sistema e il rapporto dell’uso della fotografia nella rappresentazione cartelloni
stica e pubblicitaria finora rimasto misconosciuto». «Dudovich, fotografia fra arte e passione» ha la regia di Roberto Curci e Nicoletta Ossanna Cavadini ed è frutto di un progetto integrato con lo svizzero m.a.x. Museo di Chiasso.
Anche Renato Calligaro ha usato il «Linguaggio visivo come avventura», così si intitola la mostra a lui dedicata a Casa Cavazzini di Udine (fino al 13 settembre). Oltre 300 lavori tra pittura e grafica ricostruiscono il lavoro di questo artista, scrittore e illustratore che ha cercato forme e contenuti dentro discipline diverse, provando a costruire un proprio senso del narrare. Al centro vi è soprattutto il fumetto di satira, che lo ha reso famoso. Ci spiega Vania Gransinigh, che firma la curatela assieme a Paola Bristot e Vanja Strukelj: «È l’occasione per ripercorrere tutta la carriera professionale dell’artista mettendo in relazione la produzione di tavole satiriche o a fumetti con le opere pittoriche». E così possiamo capire «come in Calligaro siano interscambiabili i diversi livelli comunicativi».
Muggia
C’è un’ultima mostra che in questo piccolo viaggio vi consigliamo di non perdere.
Muggia, Museo d’arte moderna «Ugo Carà». Fino al 16 agosto Massimo Premuda impagina un’antologia delle opere realizzate nell’ultimo decennio da Villibossi, il grande scultore muggese, in occasione dei suoi 80 anni. «Germi di Forma», questo il titolo, mette in relazione disegni e sculture, non considerandoli gli uni preparatori delle altre, ma come spartiti autonomi eppure contigui e dentro un lavoro di indagine che è «sempre riuscita a restare in equilibrio fra natura e artificio, organico e razionale, carnalità e astrazione», scrive il curatore. In questo ciclo di opere, Villibossi si è inoltrato nel «tempo vitale dei cicli naturali», per far germinare le proprie forme. Lui stesso ha detto: «Lavorare la pietra è tecnica avara che non concede pentimenti , ciò che dal blocco viene tolto, non si può aggiungere più». Un po’ quello che succede nelle nostre vite. Un altro monito.