Gdo, spettro crisi in autunno «Anticipiamo la partita esuberi»
Mancati incassi, concordati e 2.500 licenziamenti congelati: sindacati in allarme
Grande distribuzione organizzata alla grande sfida d’autunno, fra procedure concordatarie e ristrutturazioni finora nascoste sotto la superficie dal divieto di licenziare. Questo mentre i sindacati sollecitano da un lato il coinvolgimento delle forze sociali e politiche ai diversi gradi di livello per avviare da subito politiche di riqualificazione e ricollocazione e, dall’altro, per incentivare il ritorno degli esercizi nei centri storici, dato il progressivo allontanamento della clientela dai grandi insediamenti commerciali.
Sarà la grande distribuzione organizzata non alimentare il principale tavolo di confronto sul quale, in Veneto, si giocherà il destino di un numero di dipendenti imprecisato ma senz’altro dell’ordine di alcune migliaia, indotti dai ridimensionamenti tra i mancati incassi nel periodo del lockdown e i consumi in difficoltà. Nella migliore delle ipotesi, tornando ai dati pubblicati alcuni giorni fa da Veneto Lavoro sulla dinamica occupazionale dall’inizio dell’anno ad oggi, si potrebbe parlare dei 2.500 rapporti di lavoro cessati in meno registrati quest’anno, fra febbraio e fine luglio, rispetto allo stesso dato del 2019, secondo quanto segnalato da Veneto Lavoro e attribuibili al blocco dei licenziamenti per legge per l’epidemia di Covid-19.
Sicuramente, tuttavia, il pacchetto di posti di lavoro a rischio è ben più consistente e il momento in cui il suo spessore dovrebbe rivelarsi in termini esattamente aritmetici sarà la metà di novembre, punto dell’anno in cui, almeno per ora, è stato fatto slittare il divieto per le aziende private di esonerare i dipendenti. «Ma non possiamo aspettare che arrivi quella data – è il richiadel mo di Maurizia Rizzo, segretaria regionale della Fisascat Cisl del Veneto – perché a quel punto ci troveremmo probabilmente a non poter far altro che prendere atto di una serie di cessate attività e di una morìa di posti di lavoro. È fondamentale individuare strade di politiche attive, analizzare le potenzialità del territorio, i fabbisogni produttivi e definire i migliori percorsi di ricollocazione dato che, inevitabilmente, avremo persone destinate a cambiare azienda o addirittura mestiere. Stato, Regione, Comuni.. nessuno può chiamarsi fuori».
L’elenco delle criticità più evidenti nel sistema veneto del commercio è articolato. Sul no-food ci sono i casi di Scarpe e Scarpe, realtà torinese che ha chiesto il concordato in bianco, che intende chiudere in Italia 16 punti vendita su 153 attivi e che in Veneto occupa almeno 300 persone, così come H&M, gruppo intenzionato ad abbassare le serrande di otto negozi italiani fra cui quelli a Bassano Grappa e a Vicenza. Interlocutori entrambi, fanno notare i sindacati, refrattari a tavoli di confronto e che non estendono il concetto di lavoratore oltre la sua dimensione matematica di voce di costo. Altra insegna che andrà verso una riorganizzazione di almeno la metà dei propri punti vendita è Conbipel, che impiega in Veneto un centinaio dei suoi 900 dipendenti. E poi c’è la questione del Centro Tom di Santa Maria di Sala, nel Veneziano, atteso da una riorganizzazione ancora da mettere a fuoco.
C’è poi la partita di Pittarosso, la catena veneta di negozi di calzature che ha chiesto il concordato preventivo i cui progetti, secondo quanto comunicato fin qui ai sindacati, riguardano, la chiusura di una quindicina di negozi fra i quali, in Veneto, uno a Bussolengo, nel Veronese, e il secondo a San Donà di Piave, in provincia di Venezia. Qui, tuttavia, pare che il confronto fra le parti sia collaborativo e che esista «tutta la buona volontà sociale e politica – aggiunge ancora Rizzo – per evitare che le persone che saranno in esubero non siano sostenute».
Per spostare l’analisi sul fronte degli esercizi alimentari, il dossier più vistoso è certamente quello connesso all’abbandono del mercato italiano da parte di Auchan con il passaggio di una serie di punti vendita del food a Conad o altri operatori. Qui a ballare sono ancora quattro sedi importanti, cioè l’Iper di Mestre, il quale andrà probabilmente verso una riduzione della superficie e dunque una contrazione del personale, e quello di Vicenza, destinato ad un altro player dell’alimentare ma, anche in questo caso, con una contrazione degli spazi. Per le sedi di Montebelluna (Treviso) e di Rovigo i compratori che si erano posti in alternativa a Conad prima del Covid-19 ora sembrano aver ritiralo le loro manifestazioni d’interesse.
In questo ambito la necessità di un cambio di paradigma è sollecitata da Cecilia De Pantz, segretaria generale della Filcams Cgil del Veneto. «A funzionare sono gli ambienti di dimensione piccola e media, non più quelle dei centri commerciali. Il potere di spesa degli italiani è diminuito, gli acquisti sono sempre più indirizzati ai negozi di vicinato e dunque è naturale che le grandi superfici, finanziariamente non più sostenibili, siano spezzettate con settori poi destinati ad altre merceologie. In tutto questo – conclude – è fondamentale che i Comuni inizino a concepire strumenti di incentivazione per le imprese che vogliano rientrare nelle città in primo luogo supportando il costo dei canoni d’affitto».
Rizzo Non si può attendere novembre La ricollocazione del personale va studiata fin da subito
De Pantz Nella crisi dei grandi spazi incentivi alle imprese che vogliono rientrare nelle città