Il medico botanico che «scoprì» il caffè
Alla fine del ‘500 Prospero Alpini importò i semi dall’Egitto
Rientrato dall’Africa sarà prefetto dell’Orto Botanico di Padova
«Nel giardino del turco Halybei vidi un albero che produce dei semi colà ben noti col nome di bon o ban. Con questi semi, tutti, tanto gli Egiziani quanto gli Arabi, preparano un decotto assai diffuso che essi bevono al posto del vino. Questo decotto è venduto nelle pubbliche bettole, non diversamente che da noi il vino: lo chiamano caova. Questi semi provengono dall’Arabia Felice». Così scrive nel 1592 Prospero Alpini, medico e botanico marosticense, il «viaggiatore di gusto» al seguito dell’Ambasciatore della Serenissima al Cairo, nel suo De Plantis Aegypti liber. Con questo «elogio al caffè» l’Alpini si fa carico di importarne i semi, da lui «scoperti», a Venezia, al rientro dalla missione africana. Lo entusiasmava preparare, studiarne i benefici, e far conoscere anche qui i proverbiali decotti per diffonderne, primo in Europa, l’uso.
Prospero era nato a Marostica il 23 novembre del 1553, figlio di Francesco, medico.
Iscritto alla Scuola dei Filosofi e Medici dell’Università di Padova, concluso l’iter, dopo una prima pratica dell’esercizio della professione a Camposampiero, per seguire lo spirito inquieto e indagatore, comune a tanti uomini del Rinascimento, protesi verso i nuovi orizzonti, si imbarcò verso l’Egitto nel 1580 al seguito del console Giorgio Emo. Al suo rientro, nel 1584, dopo una esperienza a servizio dei Doria, a Genova, approderà all’Orto Botanico di Padova, dove le sue osservazioni, non soltanto mediche e naturalistiche, corredate da approfondimenti ed illustrazioni molto precise, gli daranno fama e notorietà. Quale quarto Prefetto dell’Orto Botanico verrà assunto con un compenso iniziale di 200 fiorini, che diventeranno già 750 l’anno successivo, quando gli sarà affidata pure la cattedra di Lettore dei Semplici (l’odierna farmacologia). Vivrà a Padova fino al 1616 . È sepolto nella Basilica del Santo.
Oggi, al suo nome, a Marostica è stata costituita una «Accademia del Caffè», con soci da tutto il Nordest, allo scopo – come ricorda la presidente Mariangela Cuman (è pure vice presidente dell’omonimo «Centro Studi», legato all’Università Patavina, fondato con Giuseppe Ongaro ed oggi guidato da Maurizio Rippa Bonati) - di promuovere la cultura dell’infuso della nostra quotidianità.
L’«Accademia» si impegna a valorizzare le ricerche Alpiniane, ad organizzare, coordinare e patrocinare incontri, favorire la dimensione sociale del rito del caffè, promuovere le relazioni che i luoghi del caffè suggeriscono e propongono. A tal riguardo basti pensare a cosa hanno rappresentato, per la cultura, le arti, la politica, locali storici come il Pedrocchi a Padova, il Greco a Roma, il Florian e il Quadri a
Venezia, il Cova a Milano, il Gambrinus a Napoli, il Bicerin a Torino, solo per fare alcuni nomi. Per sviluppare e diffondere il consumo di questa bevanda la Venezia di Carlo Goldoni affidò alle settecentesche industrie della porcellana, quelle bassanesi e di Nove, degli Antonibon e dei Viero, in primis, la realizzazione di tazzine, zuccheriere e bricchi con cui accompagnare ed allietare gli incontri che Pietro Longhi, il «Pitor del Veneto» bene rappresentò.
Di caffè, dei diversi modi per prepararlo, delle qualità ed origini più diffuse, di aromi, gusti e sapori da condividere con i saperi, si può dissertare a lungo. Potremmo anche sfidare le fantasie più ardite e sfogliare pagine di ricette, tra divinazione e «caffemanzia» (l’arte di leggere il futuro in una sfera di cristallo o analizzando i neri fondi delle miscele impiegate per la bevanda). «O uomini che avete una mente sana, bevete il caffè, perché nel suo aroma si dileguano le preoccupazioni»: parola del saggio Hadijbrun di Medina.