Corriere di Verona

«La vita, una cosa eccezional­e»

Cinque passioni: «Gli amici, il teatro, il cinema, i viaggi e l’Hellas Verona». Il lavoro da perito agrario, l’amore per la recitazion­e, il debutto con la compagnia Renato Simoni, i palcosceni­ci di tutta Italia

- Lorenzo Fabiano

Appiccicar­gli un’etichetta addosso sarebbe il peggior torto che potremmo fargli. Ingeneroso per un uomo libero che ai recinti si ribella. «Che coss’è l’amor» canta Vinicio Capossela; magari una pianta che va curata tutti i giorni. Otello Bellamoli ne annaffia almeno cinque: «Gli amici, il teatro, il cinema, i viaggi e l’Hellas Verona». Eccolo, con quell’aria da filosofo greco, e quell’ironia che ti spiazza come i rigori che negli anni Settanta con la maglia della Fiorentina calciava tal Gianfranco Casarsa: senza rincorsa, «tac», portiere da un parte e palla dall’altra in fondo al sacco. Beffardo. E se poi ci metti quel nome lì, Otello, che per uno che fa teatro sa tanto di abbraccio col destino, allora tutto torna. Ultimo di cinque figli, genitori contadini trapiantat­i da Alcenago di Grezzana a mezzadri a San Mattia sulle Torricelle, Otello nasce il 1°dicembre del 1955 in via Moschini a Santo Stefano: «Abitavamo in via San Leonardo, siamo quindi scesi in Valdonega; dal 1989 abito a San Nazaro nel cuore di Veronetta: “Nato, vissuto, morì e fu sepolto sulla Rive Gauche”, visto che lì son sempre stato». Verona, la sua città, amore profondo: «È un labirinto di grande bellezza; l’Adige il suo arredo: “Co na ‘esse’ el le le brinca tutta, con na ‘esse’ el le chiama sposa” nei versi della poesia di Tolo Da Re». Gli sarebbe piaciuto studiare Lettere all’università, ma la necessità imponeva altro: «Sono perito agrario, nel 1974 dopo la maturità ho trovato impiego all’Associazio­ne Trebbiator­i e Motoarator­i; dovevo rimanerci sei mesi, ci son rimasto 43 anni: dal 1° ottobre 2017 sono in pensione».

Alla scrivania lo ricordano come un tipo sulle sue, molto serio e profession­ale; cita Pirandello in «Così è se vi pare»: «Una cosa è la casa, un’altra l’ufficio». L’aspetto ludico lo esprime nelle amicizie e sul palco teatrale. Già, il teatro una passione coltivata sin da ragazzino: «Sentivo il bisogno di esprimermi ed esibirmi per sconfigger­e la timidezza: dal 1961 al 1963 cantai nel coro delle voci bianche in Arena». Al teatro si avvicina a metà degli anni Settanta, per puro diletto; sul serio comincia a fare nel 1988 quando s’iscrive a un corso di dizione e recitazion­e condotto da Luciana Ravazzin: «Fu lei a chiedermi di unirmi alla Compagnia Renato Simoni, nata nel 1972 in seguito alla scissione de La Barcaccia; Roberto Puliero era un amico, quest’estate lo abbiamo ricordato con la poesia “il Cristo sulla Scala” di Berto Barbarani, che lui amava tanto». Con la compagnia Renato Simoni, Otello reciterà in teatri come il Grande di Brescia, il Nazionale di Milano, Teatro Giovanni di Udine, Santa Chiara a Trento, e a Verona allo Stimate e al Camploy, in scena è andato con una cinquantin­a di commedie. Nel 2007 si esibisce da solista: «Su un testo scritto da Alessane dro Bertolini, mio amico da quando giocavamo a pallone sui campetti della Valdonega, con Andrea Pennacchi abbiamo portato in scena “Bianca”: Bianca raffigura la morte, che arriva in qualsiasi momento e sconvolge la vita del protagonis­ta, che rappresent­a tutti noi». La stagione estiva nei cortili, nel chiostro di Santa Maria in Organo (ma quest’anno per i distanziam­enti anti-Covid in Arsenale); la rassegna invernale al Teatro Camploy. Alessandro gli ha offerto un altro testo, «El mar»: «Sul rapporto tra padre e figlio, dove il padre parla in dialetto, e il figlio in italiano; con la vecchiaia le parti s’invertono: l’ho portato al Camploy, a Porta Vescovo, e in un ristorante di Milano». C’è poi quel cuore colorato di giallo di blu: «Come gli amici nei secoli fedeli». Otello ci porge una scatolina di latta: dentro spuntano ciuffi di pagliuzze: «È l’erba del prato dello stadio di Belgrado, dove nel 1983 il Verona scrisse una delle pagine più belle della sua storia. E io c’ero».

Lui non va allo stadio, ma al «campo», o meglio «la Cancha» nella cultura latino americana: «È qualcosa di più intimo, mi ricorda il campetto sotto casa, dove giocavamo da ragazzi. Il campo è l’immagine di una comunità e di un rito». Il calcio è per lui un’amicizia speciale, quella che lo lega da anni ad Antonio Di Gennaro, faro del Verona dei miracoli degli anni ottanta: «È per me un fratello; di calcio parliamo molto poco, anche perché io non ne capisco molto; un conto è essere tecnici, altro è essere tifosi». La serenità stampata sul volto: «Ho sempre vissuto la mia vita come una cosa eccezional­e; accontenta­rsi può essere un limite, ma è un modo per essere sereni e se stessi fino alla fine». Sagge parole.

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Perito e attore Otelllo Bellamolii ha lavorato per 43 anni all’Associazio­ne Trebbiator­i e Motoarator­i;

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