SE L’ITALIA RIPARTE DA VENEZIA
«L’Italia riparte da Venezia» si leggeva alla tv sui cartelloni dello stadio di Firenze esposti durante la partita di calcio ItaliaBosnia del 4 settembre scorso. Lo slogan era lì per ricordare il ruolo di «official hub» delle nazionali di calcio italiane che l’aeroporto di Venezia ha assunto di recente. Ma almeno per un momento non si poteva non pensare che la «ripartenza» in questione fosse quella economica e sociale post Covid del nostro Paese. In fondo, se esistono, come esistono, dei «dove» muovendo dai quali la ripartenza nazionale può diventare più efficace, Venezia può/deve essere tra questi. La sola condizione è che il faticoso dibattito in corso sulle priorità d’impiego del recovery fund europeo consolidi la convinzione della necessità di una rottura strutturale del sentiero di sviluppo del nostro Paese. Aspettare e sperare che sostenendo i consumi e salvaguardando qualsiasi impresa il sistema produttivo italiano ritorni a crescere più che negli anni pre-Covid è solo foriero di tragiche delusioni. Non basta ricostruire quello che il Covid ha distrutto, dobbiamo far uscire economia e società italiane da una crisi che il lockdown e la convivenza con la pandemia hanno solo esacerbato. Provvidenziali a questo scopo la carota e il bastone europei. La carota degli oltre 200 miliardi di euro riservati all’Italia dal Next Generation EU, il recovery fund, e il bastone dei «vincoli» virtuosi che esso impone.
Attenzione solo a progetti che aiutino l’Italia a sposare le transizioni verde e digitale per aumentare le proprie produttività e competitività. Tra questi progetti un posto privilegiato va riservato – per fortuna nessuno lo mette in dubbio - agli investimenti in infrastrutture «produttive»: digitali, energetiche, idriche e di trasporto.
Tutti investimenti che hanno un «dove»; che producono effetti più elevati e duraturi di reddito e occupazione in un luogo piuttosto che in un altro.
Un «dove» che non può limitarsi alla pur utile distinzione tra Centro Nord e Mezzogiorno, né essere il risultato di una distribuzione a pioggia come quella operata dal decreto Semplificazione per gli investimenti in infrastrutture di trasporto. È nel doveroso approfondimento del dibattito lanciato dalla pubblicazione delle Linee guida per il piano nazionale di ripresa e resilienza che Venezia diventa potenziale protagonista, un possibile «game changer».
Come «città», come nodo metropolitano di rango europeo (con Padova e Treviso), luogo elettivo - da far diventare tale come le altre 11 città metropolitane italiane - per l’avvio dei processi di innovazione non solo digitale e verde che debbono caratterizzare la ripresa italiana. Città tutte da reinventare nel mondo post Covid, perché sconvolte dal telelavoro, dalla tele università, dal tele commercio e dal crollo del turismo internazionale e, quindi nel trasporto, nel commercio e nella ristorazione locali. E come «nodo intermodale» (stradale, ferroviario, di navigazione interna, aeroportuale e soprattutto portuale) capace, se adeguato con le dovute opere complementari al Mose, di rimuovere il collo di bottiglia - costituito dal suo stato di porto regolato - che oggi limita l’efficienza dell’intera rete di trasporto nord orientale, quella meglio capace di reinserire l’Italia sulle rotte globali Europa Asia.
Un salto di paradigma veneto, italiano ed europeo, che consentirebbe alle merci di seguire tra Europa e Asia i percorsi più corti, marittimi e terrestri, e quindi più «verdi». Di tutto questo vi sono ancora solo timide tracce nelle bozze di proposte governative per il Recovery Plan. Maggior consapevolezza è per fortuna presente a livello europeo. È da sperare che Regione del Veneto e Comune di Venezia, dopo la parentesi elettorale in corso, vogliano precipitarsi a far coincidere gli interessi veneti con quelli nazionali ed europei: rilanciare Venezia (e il Veneto) per far ripartire l’Italia e l’Europa.