E ORA DOVRÀ COMPETERE CON SE STESSO
«Credibile». «Mi fido di lui». Il miglior slogan per un politico. Giudizio secco, semplice, apodittico. Il motivo «basico» e bastevole per chiunque voglia far sapere a Zaia perché ha vinto e a noi perché ha vinto Zaia. Quel «mi fido di lui» è più di un programma elettorale, più di una lezione di politologia, più di un oracolo. Lo hanno scelto sia a destra che a sinistra. Chiunque abbia parlato con il «popolo» lo poteva avere chiaro. Popolo, appunto, anche di sinistra, che ha votato disgiunto o ha aggiunto, popolo non di partito ma quello che vota al di là dei partiti. Più che un’elezione un nuovo referendum. Dopo quello sull’autonomia, quello sul padre dell’autonomia che «incarna il Veneto». Al netto delle critiche, della più volte rilanciata «carenza di visione» (giudizio da lui respinto), Zaia ha battuto tutto e tutti. Certo, anche grazie ad una campagna elettorale inesistente e al vantaggio di farla di default con collegamenti televisivi quotidiani dalla tolda di comando della Protezione civile di Marghera, sorta di centrale da stato di guerra, in questo caso contro il Covid.
Ma avrebbe stravinto lo stesso (i sondaggi lo davano altissimo già prima del Covid). Luca Zaia, con il record di consensi da quando in Italia esistono le Regioni (1970) ha battuto candidati e partiti del tabellone avversario e di quello +amico. Ha sconfitto un centrosinistra-ectoplasma, starato rispetto all’antropologia del Veneto e debole nel suo candidato, scelto da un Pd che non ha saputo o voluto opporgli uno sfidante di bandiera immolato comunque alla sconfitta. E ha sopravanzato la Lega «nazionale» di Salvini, quasi fosse un partito «esterno» o «altro».
L’unico soggetto politico con il quale il governatore uscente e rientrante ora dovrà competere è se stesso. Ovvero il suo futuro: l’autonomia. Come lui ama ripetere, «la madre di tutte le battaglie». Autonomia che, paradossalmente (ma neanche troppo) sarà più facile ottenere dal centrosinistra che dal centrodestra. E non solo perché con i risultati delle regionali di ieri il governo Conte è più saldo di prima (il sogno di premierato di Salvini è almeno per il momento sfumato). Zaia - che ieri ha nuovamente allontanato ogni sirena di impegno romano - lo potrà fare dal Nordest dei governatori che soprattutto con il Covid hanno preso campo sulla politica. Luca & Stefano (Bonaccini, presidente Pd dell’Emilia), nella partita nazionale sono diventati una coppia di attaccanti che ha sparigliato i giochi come avanguardia del buongoverno e della «credibilità». Luca & Stefano pungoli di partiti diversi capaci di dialogare con un esecutivo più volte «sfidato» ma abile nel gestire la voce dei territori con il Pil più alto del Paese (assieme alla Lombardia) difendendo al contempo una linea sovraregionale e unitaria. Un governo che sotto il profilo della gestione Covid ha dimostrato errori compresi - di saper affrontare l’emergenza molto meglio della maggior parte delle nazioni continentali e globali. E che ha dimostrato come sotto il profilo sanitario il federalismo possa funzionare. Non a caso ha assecondato il coinvolgimento sull’emergenza virus della Conferenza delle Regioni, presieduta da Bonaccini, diventata sempre più una sorta di seconda Camera dello Stato. Ora, proprio assieme a Bonaccini, con il quale si sente ogni giorno, Zaia avrà la possibilità di ottenere l’autonomia - o nel peggiore dei casi mettere una zeppa sotto la porta che apre alla riforma - giovandosi di un vantaggio: il dialogo già fortemente avviato con l’esecutivo Pd-Cinque Stelle. La bozza di accordo con il governo, dopo la trattativa avvenuta con il ministro degli Affari Regionali Francesco Boccia, è già pronta. Anche i tempi sono corti: Boccia ha annunciato per l’inizio di ottobre la presentazione in parlamento della legge quadro che contiene le regole e la strada da seguire per arrivare alla firma della fatidica intesa tra lo Stato le Regioni. Non solo. La battaglia per l’autonomia, oltre a prendere forza dal successo personale di Zaia e dalla centralità nel Pd del collega Bonaccini, potrebbe giovarsi anche del protagonismo degli altri due governatori dem che proprio ieri sono stati riconfermati ad Sud, De Luca in Campania ed Emiliano in Puglia. Entrambi aperturisti - fatto salvo l’aspetto «solidale» della nuova architettura istituzionale - rispetto all’ipotesi di una riforma federale del Paese. Come potrà il Pd in parlamento, certo nell’ambito dell’alleanza con i Cinque Stelle, votare contro le istanze che vengono dal «nuovo protagonismo» dei leader territoriali? E come potranno i Cinque Stelle del Nord/Nordest, sostenitori convinti della riforma, contraddire a Roma ciò che dicono in Veneto?
Insomma, un risultato molto diverso da quello che (non) ha ottenuto Zaia quando governava l’alleanza Lega-M5S. Concesso che Salvini creda nell’autonomia e che nella trattativa dell’allora ministra leghista Stefani parte dei grillini si misero di traverso, il segretario del nuovo partito nazionale avrebbe avuto (e avrebbe ancora) i suoi problemi ad andare a raccogliere voti al Sud. Anche o soprattutto con un governo di centrodestra. Ipotesi peraltro, per il momento, fuori dalla realtà dopo la sconfitta patita ieri (ha potuto «gioire» solo per la vittoria di Zaia in Veneto, dove la lista della Lega ha preso un terzo dei voti rispetto al Re Leone).
Naturalmente l’autonomia non sarà la sola sfida nei prossimi cinque anni di governo Zaia, che con i primi due mandati arriveranno a quindici. Il campione del consenso, tra le partite portate a casa, ha rivendicato il sì alle Olimpiadi di Cortina, ostinatamente volute e ottenute, la Pedemontana e la riforma della sanità. Ma ce ne sono altre fondamentali. Come quella sui soldi del Recovery Fund, per i quali Roma ha chiesto un piano dettagliato che rilanci il Veneto, che il sistema imprese attende e che il governatore rieletto ha promesso a breve. Come decisiva è quella sulla Tav, le Grandi Navi e il Porto di Venezia. Una sfida enorme anche per un amministratore molto «credibile».