COME FAR TORNARE L’EMIGRATO
L’esodo all’estero di giovani veneti, prevalentemente con alta scolarizzazione, è sotto i riflettori. Che si voglia drammatizzarne la consistenza numerica – 250.000 in dieci anni - o descriverne gli effetti di impoverimento del ricambio nel tessuto sociale e nel mercato del lavoro, nella natalità di famiglie e di imprese, rimane un dato di fondo preoccupante: la perdita verticale di attrattività della nostra regione.
Che cosa ha innescato questo processo? Una ricerca di carriere lavorative più gratificanti, una remunerazione più elevata, una qualità della vita più intensa?
A poco serve l’adagio ragionieristico che sottolinea gli investimenti formativi sprecati dal sistema pubblico, di cui beneficiano le terre di attrazione, che a volte sono anche la Lombardia e l’Emilia Romagna. Quando tante storie personali assumono un profilo collettivo, di rilevanza sociale, si può stressare un repertorio infinito di spiegazioni, ma tuttavia insoddisfacente.
Per comprendere le ragioni di un soggetto sociale «nuovo» più di mille sociologismi, la prima operazione da fare è costruire un contatto, disporsi in ascolto, cercare una relazione dialogica, riconoscersi reciprocamente.
Quando questa emigrazione molto particolare era agli albori, e più che parlarne se ne sussurrava, stiamo parlando del 2010, il Comune di Pordenone ebbe un’idea semplice e al tempo stesso geniale.
All’epoca il Sindaco scrisse a tutti gli emigrati da poco rintracciabili invitandoli a un momento di ascolto della loro esperienza, dichiarando la volontà di coltivare un legame anche da lontano, chiedendo loro come vedevano se stessi e la terra da cui erano partiti.
C’era il circospetto timore che chi se ne andava via nutrisse un filo di rancoroso distacco dalla città in cui erano cresciuti. Invece il messaggio lanciato dal Sindaco ebbe una risposta straordinaria.
Persino dall’Australia e dal Nord America ci furono adesioni agli eventi organizzati.
Quando i «ritornanti» si disposero a raccontarsi spiegarono che la molla più forte all’emigrazione era la volontà di realizzarsi in un contesto lavorativo ed esistenziale interessante, emotivamente intenso, più forte della sola molla economica o della curiosità esterofila. Ritenevano di aver fatto una scelta individuale, che però dipendeva da un’esperienza collettiva: non si avvertiva più, nei luoghi di origine, una tensione, uno «spirito», un entusiasmo protesi al futuro.
A riprova, emblematico un episodio. Durante gli incontri organizzati tra «emigrati» con le scuole superiori e con gli imprenditori, un giovanissimo ingegnere informatico pordenonese, in posizione apicale alla Oracle negli USA, ha la possibilità di conversare con il visionario creatore di Eurotech, una delle più avanzate imprese globali di Intelligenza Artificiale, con sede ad Amaro sulle montagne friulane, non propriamente la Silicon Valley. Successivamente, credo con soddisfazione reciproca, fu assunto lì. Una storia di «ritornante» davvero speciale, che non fa certo media statistica, perché il seduttore è un imprenditore visionario di valore assoluto.
Stranamente quell’esperimento non fu più ripetuto a Pordenone, né imitato altrove, nonostante avesse invertito l’atteggiamento nei confronti dei protagonisti di questo esodo: interessarsene, contattarli, ascoltarli.
Il Covid potrebbe rappresentare un punto di svolta. Anche in Veneto, e in non pochi ambiti, si dovrà avviare a una sorta di ricostruzione. Pensiamo alle professioni sanitarie con migliaia di posizioni scoperte e con ondate di concorsi in preparazione; o alle numerosissime imprese industriali e dei servizi che dichiarano carenza di figure professionali qualificate, a caccia di profili che due, tre anni fa neppure esistevano. Si dovrebbero strutturare forme di offerta di canali di comunicazione con chi è andato via, potrebbero essere gli Informagiovani dei Comuni a gestirli, in fin dei conti, gli emigrati veneti erano «tracciabili» anche nell’Ottocento.
La ricostruzione che viene avanti deve certo presentare una grande apertura del mercato del lavoro professionale. Ma non dimentichiamo che il bisogno più profondo di chi ha percorso un esodo è quello di riscoprire nella radice che porta, l’entusiasmo per il proprio appartenere al futuro che viene avanti.