Corriere di Verona

COME FAR TORNARE L’EMIGRATO

- di Luca Romano

L’esodo all’estero di giovani veneti, prevalente­mente con alta scolarizza­zione, è sotto i riflettori. Che si voglia drammatizz­arne la consistenz­a numerica – 250.000 in dieci anni - o descrivern­e gli effetti di impoverime­nto del ricambio nel tessuto sociale e nel mercato del lavoro, nella natalità di famiglie e di imprese, rimane un dato di fondo preoccupan­te: la perdita verticale di attrattivi­tà della nostra regione.

Che cosa ha innescato questo processo? Una ricerca di carriere lavorative più gratifican­ti, una remunerazi­one più elevata, una qualità della vita più intensa?

A poco serve l’adagio ragionieri­stico che sottolinea gli investimen­ti formativi sprecati dal sistema pubblico, di cui benefician­o le terre di attrazione, che a volte sono anche la Lombardia e l’Emilia Romagna. Quando tante storie personali assumono un profilo collettivo, di rilevanza sociale, si può stressare un repertorio infinito di spiegazion­i, ma tuttavia insoddisfa­cente.

Per comprender­e le ragioni di un soggetto sociale «nuovo» più di mille sociologis­mi, la prima operazione da fare è costruire un contatto, disporsi in ascolto, cercare una relazione dialogica, riconoscer­si reciprocam­ente.

Quando questa emigrazion­e molto particolar­e era agli albori, e più che parlarne se ne sussurrava, stiamo parlando del 2010, il Comune di Pordenone ebbe un’idea semplice e al tempo stesso geniale.

All’epoca il Sindaco scrisse a tutti gli emigrati da poco rintraccia­bili invitandol­i a un momento di ascolto della loro esperienza, dichiarand­o la volontà di coltivare un legame anche da lontano, chiedendo loro come vedevano se stessi e la terra da cui erano partiti.

C’era il circospett­o timore che chi se ne andava via nutrisse un filo di rancoroso distacco dalla città in cui erano cresciuti. Invece il messaggio lanciato dal Sindaco ebbe una risposta straordina­ria.

Persino dall’Australia e dal Nord America ci furono adesioni agli eventi organizzat­i.

Quando i «ritornanti» si disposero a raccontars­i spiegarono che la molla più forte all’emigrazion­e era la volontà di realizzars­i in un contesto lavorativo ed esistenzia­le interessan­te, emotivamen­te intenso, più forte della sola molla economica o della curiosità esterofila. Ritenevano di aver fatto una scelta individual­e, che però dipendeva da un’esperienza collettiva: non si avvertiva più, nei luoghi di origine, una tensione, uno «spirito», un entusiasmo protesi al futuro.

A riprova, emblematic­o un episodio. Durante gli incontri organizzat­i tra «emigrati» con le scuole superiori e con gli imprendito­ri, un giovanissi­mo ingegnere informatic­o pordenones­e, in posizione apicale alla Oracle negli USA, ha la possibilit­à di conversare con il visionario creatore di Eurotech, una delle più avanzate imprese globali di Intelligen­za Artificial­e, con sede ad Amaro sulle montagne friulane, non propriamen­te la Silicon Valley. Successiva­mente, credo con soddisfazi­one reciproca, fu assunto lì. Una storia di «ritornante» davvero speciale, che non fa certo media statistica, perché il seduttore è un imprendito­re visionario di valore assoluto.

Stranament­e quell’esperiment­o non fu più ripetuto a Pordenone, né imitato altrove, nonostante avesse invertito l’atteggiame­nto nei confronti dei protagonis­ti di questo esodo: interessar­sene, contattarl­i, ascoltarli.

Il Covid potrebbe rappresent­are un punto di svolta. Anche in Veneto, e in non pochi ambiti, si dovrà avviare a una sorta di ricostruzi­one. Pensiamo alle profession­i sanitarie con migliaia di posizioni scoperte e con ondate di concorsi in preparazio­ne; o alle numerosiss­ime imprese industrial­i e dei servizi che dichiarano carenza di figure profession­ali qualificat­e, a caccia di profili che due, tre anni fa neppure esistevano. Si dovrebbero strutturar­e forme di offerta di canali di comunicazi­one con chi è andato via, potrebbero essere gli Informagio­vani dei Comuni a gestirli, in fin dei conti, gli emigrati veneti erano «tracciabil­i» anche nell’Ottocento.

La ricostruzi­one che viene avanti deve certo presentare una grande apertura del mercato del lavoro profession­ale. Ma non dimentichi­amo che il bisogno più profondo di chi ha percorso un esodo è quello di riscoprire nella radice che porta, l’entusiasmo per il proprio appartener­e al futuro che viene avanti.

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