«Ho riaperto il ristorante: 80 coperti come mensa»
Per restare aperto, il ristorante Al Borgo di Cerea è diventato mensa.
Gli otto imbianchini di una ditta edile. I dieci operai di un’officina meccanica. Gli amministrativi di un supermercato lì vicino. «Riaprire così aiuta ad andare avanti, un ristoro concreto contro quello irrisorio di Roma, ma è anche una tutela per chi ha bisogno di una ristorazione di servizio, due piatti caldi, seduto a un tavolo riposando per mezzora: una cosa di civiltà».
Classe ’74, Enrico Fiorini gestisce il ristorante «Al Borgo 1964», a Cerea, nella Bassa: parliamo di uno dei circa 2.800 ristoranti veronesi ma soprattutto di uno dei primi ristoranti della provincia — in città il nemico si chiama smart working — che hanno riaperto a pranzo in forma di mensa aziendale. Racconta Paolo Artelio, guida di FipeConfcommercio, che «da una settimana continuano a chiederci informazioni su questa possibilità appena confermata anche dalla prefettura: il Dpcm del 3 dicembre scorso stabiliva che le mense aziendali possono proseguire». Per un ristorante non abituato alla ristorazione di servizio significa poter valutare la «trasformazione» stipulando contratti con aziende e uscendo così dalle briglie di asporto e delivery. Al pranzo non entra il privato qualunque e tra i documenti della convenzione c’è l’elenco dei dipendenti al tavolo. Le linee-guida? Quelle delle vecchie riaperture, vedi distanziamento e sanificazioni. Ai tempi della protesta «#ioapro», peraltro piuttosto isolata, è una chance al riparo da sanzioni. «Rifiuto la linea di pensiero di #ioapro — fa Fiorini — anche se quando spingi una categoria alla disobbedienza civile qualche domanda, come politico, te la dovresti porre. Detto ciò, a Cerea stiamo lavorando con 7080 coperti al giorno rispetto ai 120 a regime normale. Riaprire vuol dire far lavorare circa 35 fornitori, dagli stuzzicadenti alle bibite, dal contadino che ci vende la verdura al panettiere. Dai quarantasette coperti in su qualcosa ti rimane in cassa, il che significa poter tamponare la falla».
È il doloroso tasto dei «ristori». Fiorini porta avanti altri due locali di cui uno in città («In tutto 62 dipendenti che sono in cassa integrazione») ma «la perdita è del 70% e da Roma ci è arrivato l’1% del vecchio fatturato totale».
Riaprire pure il locale in città, sotto forma di mensa aziendale, è fuori discussione, per lui. La stessa Confcommercio conferma che pochi tra centro e periferia, salvo in Zai, ci stanno pensando. E non è solo un fatto di smart-working. Riflette Fiorini: «Le differenze che ho visto tra città e Bassa dal primo lockdown a ora? Verona si è completamente seduta scoprendo di non essere dei veronesi ma dei turisti, e oggi pare un animale ferito, pieno di paura. La Bassa vive nel verde, la gente è rustica: nel maggio scorso riaprire qui voleva dire la sala subito piena, cosa che in città abbiamo rivisto giusto a metà settembre».
Enrico Fiorini
Ho anche locali in città, ma tra smart-working e altro a riaprirli non ci penso nemmeno