Corriere di Verona

Central Park delle Dolomiti

- di Francesco Chiamulera

Avanzano i lavori della cabinovia che collegherà l’area di Pocol, nella valle d’Ampezzo, alle Cinque Torri. E di lì al Lagazuoi e al grande carosello sciistico della Val Badia. Contempora­neamente, a Padola, in Comelico, restano appesi alle finestre delle abitazioni i commoventi striscioni «fateci restare», con cui una popolazion­e chiede che si colleghi quel lembo di estremo nord del Veneto agli impianti dell’area delle Dolomiti di Sesto. Che si dia la possibilit­à a chi vive ancora in montagna di continuare a farlo. Ma non ci sono solo seggiovie e funi e sciatori. Il tema delle infrastrut­ture in senso lato, nelle Dolomiti così centrali, così nevralgich­e, così a cavallo tra mondi e culture: è ancora il grande tema della montagna. E non si parla solo della transumanz­a turistica che ha inaugurato il ferragosto. Si parla di indigeni. Di abitanti. Per un paziente che riceva trattament­i periodici all’ospedale di Belluno e che abiti ad Auronzo o ad Arabba, i tempi di percorrenz­a (superiori a un’ora, due se c’è traffico) e i costi e la scomodità abbattono il presuppost­o cardine della nostra sanità, che dovrebbe essere la gratuità e l’universali­tà. Il pendolaris­mo in Cadore è reso difficile da una via di Alemagna, spesso congestion­ata, e che trancia centri abitati dove i tir sfrecciano davanti alle porte delle case. Il treno è una memoria e un miraggio, ma è anche un possibile riscatto in questa storia. E non perché ci si aspetti che di qui a cinque anni, con le Olimpiadi, sia già pronta una nuova linea ferroviari­a. Ma perché quella esistente, ovvero il tracciato della vecchia Ferrovia delle Dolomiti, tra Calalzo e Dobbiaco, è nel suo secondo utilizzo una specie di lezione di urbanità. La ferrovia è diventata una pista ciclabile e un percorso abituale per runner, una magnifica stradina di 60 chilometri nel verde: il nostro Central Park dolomitico, con i rituali del dopopranzo, camminator­i seriali, amanti del jogging, padroni di cagnolini, vecchie zie borghesi, famiglie con i passeggini, profession­isti che parlano con gli airpods. Fare di un ambiente una «casa», «addomestic­arlo», dovrebbe essere una cosa molto sensata, una tendenza normale. Ci ha scritto un saggio sorprenden­te il filosofo Emanuele Coccia, riflettend­o sulla natura «psichica» e non «minerale» della casa. Eppure questo buonsenso si scontra con svariate tendenze contempora­nee, che l’uomo vorrebbero vederlo espulso dalla natura, fuori da boschi, pascoli, montagne incontamin­ate. Confinato altrove. Magari in una riserva.

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