Central Park delle Dolomiti
Avanzano i lavori della cabinovia che collegherà l’area di Pocol, nella valle d’Ampezzo, alle Cinque Torri. E di lì al Lagazuoi e al grande carosello sciistico della Val Badia. Contemporaneamente, a Padola, in Comelico, restano appesi alle finestre delle abitazioni i commoventi striscioni «fateci restare», con cui una popolazione chiede che si colleghi quel lembo di estremo nord del Veneto agli impianti dell’area delle Dolomiti di Sesto. Che si dia la possibilità a chi vive ancora in montagna di continuare a farlo. Ma non ci sono solo seggiovie e funi e sciatori. Il tema delle infrastrutture in senso lato, nelle Dolomiti così centrali, così nevralgiche, così a cavallo tra mondi e culture: è ancora il grande tema della montagna. E non si parla solo della transumanza turistica che ha inaugurato il ferragosto. Si parla di indigeni. Di abitanti. Per un paziente che riceva trattamenti periodici all’ospedale di Belluno e che abiti ad Auronzo o ad Arabba, i tempi di percorrenza (superiori a un’ora, due se c’è traffico) e i costi e la scomodità abbattono il presupposto cardine della nostra sanità, che dovrebbe essere la gratuità e l’universalità. Il pendolarismo in Cadore è reso difficile da una via di Alemagna, spesso congestionata, e che trancia centri abitati dove i tir sfrecciano davanti alle porte delle case. Il treno è una memoria e un miraggio, ma è anche un possibile riscatto in questa storia. E non perché ci si aspetti che di qui a cinque anni, con le Olimpiadi, sia già pronta una nuova linea ferroviaria. Ma perché quella esistente, ovvero il tracciato della vecchia Ferrovia delle Dolomiti, tra Calalzo e Dobbiaco, è nel suo secondo utilizzo una specie di lezione di urbanità. La ferrovia è diventata una pista ciclabile e un percorso abituale per runner, una magnifica stradina di 60 chilometri nel verde: il nostro Central Park dolomitico, con i rituali del dopopranzo, camminatori seriali, amanti del jogging, padroni di cagnolini, vecchie zie borghesi, famiglie con i passeggini, professionisti che parlano con gli airpods. Fare di un ambiente una «casa», «addomesticarlo», dovrebbe essere una cosa molto sensata, una tendenza normale. Ci ha scritto un saggio sorprendente il filosofo Emanuele Coccia, riflettendo sulla natura «psichica» e non «minerale» della casa. Eppure questo buonsenso si scontra con svariate tendenze contemporanee, che l’uomo vorrebbero vederlo espulso dalla natura, fuori da boschi, pascoli, montagne incontaminate. Confinato altrove. Magari in una riserva.