Corriere di Verona

Integrazio­ne e ribellione I tre fratelli di Montagner

«Brotherhoo­d» del regista trevigiano in concorso a Locarno

- Francesco Verni

Jabir, Usama e Uzeir, sono tre giovani fratelli bosniaci, nati in una famiglia di pastori. Sono cresciuti all’ombra del padre, Ibrahim, un predicator­e islamista severo e radicale. Quando Ibrahim viene condannato a due anni di carcere per terrorismo, i tre fratelli vengono lasciati soli e liberi di crescere. È questa, in estrema sintesi, la sinossi del documentar­io Brotherhoo­d diretto dal trevigiano Francesco Montagner, classe ’89, già premiato a Venezia, nel 2014, con il Venice Classics Award per il miglior documentar­io sul cinema per Animata.

Brotherhoo­d è in concorso, nella sezione Cineasti del Presente al 74esimo Festival di Locarno che si chiuderà sabato.

Come nasce il progetto di «Brotherhoo­d»?

«Stavo seguendo in television­e una storia di integralis­mo religioso che dal Veneto arrivava fino alla famiglia bosniaca che sarebbe stata il centro del mio film. Mi sono chiesto come mai questi adolescent­i bosniaci potessero avere riferiment­i così diversi dai ragazzi italiani».

Per quanto ha seguito la vita di questi tre fratelli?

«Nel 2015 ho parlato a lungo con il padre, non sapendo che fosse già sotto processo, che mi ha concesso di filmare a parte che tutto venisse fatto con rispetto. Dopo un anno di conoscenza abbiamo iniziato le riprese che, a più tornate, sono continuate per un totale di quattro anni».

Come è cambiata la dinamica familiare con l’arresto del padre?

«L’assenza del padre padrone, ha permesso ai figli di determinar­e che uomini volessero diventare. I tre fratelli appartengo­no a tre archetipi molto diversi. Per il più grande, Jabir, 17 anni, la religione non è mai stata il fulcro della vita ma amava macchine veloci, la discoteca e le ragazze. D’altro canto Usama, 15 anni, si è preso carico della famiglia diventando un pastore, mentre Uzeir, 11 anni, non amava né la mondanità vuota di Jabir né il mondo arcaico e molto religioso di Usama».

Un mondo arcaico in cui si è immersi e un futuro da costruire è una dicotomia molto forte da sanare.

«Jabir, Usama e Uzeir senza il padre hanno potuto vivere la libertà, esplorando cose che fino a quel momento in casa erano proibite ma facendo i conti con un enclave radicale in cui sono nati».

Che difficoltà ha incontrato nelle riprese?

«La difficoltà principale è stata costruire un rapporto di fiducia e rispetto reciproco con i protagonis­ti. Il più difficile è stato quello con il padre ex veterano di guerra e membro del’Isis».

Che cosa ha imparato da questo film?

«La cosa principale è che con il tempo si può capire chiunque. Magari giudicarlo, ma si può entrare in contatto con il diverso: ascoltare è difficile ma necessario».

Del suo essere veneto ha portato qualcosa sul set?

«L’umiltà, il valore della semplicità e riuscire a guardare al mondo rurale con una certa poesia. Questo mondo è difficile da capire quando si è giovani: lo è stato per me come lo è per i ragazzi del film».

Del Veneto porto nel film l’umiltà e il valore della semplicità

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Documentar­io Una scena di «Brotherhoo­d», diretto dal trevigiano Francesco Montagner, classe ’89

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