Sorrentino al Lido: «Il mio folle amore per Venezia »
Sorrentino al Lido con il film che racconta la morte dei genitori quando era adolescente. «Certi dolori creano un’interruzione»
«Venezia è una città di cui sono follemente innamorato. A volte quando dicevo che una scena andava girata qui i produttori mi dicevano: “Ma perché devi farla proprio a Venezia?” E io dicevo che era essenziale per la storia. In realtà era perché volevo venire qua, perché Venezia è come Napoli, una città che non finisci mai di scoprire, sembra sia stata costruita da bambini intelligenti». Paolo Sorrentino esordì vent’anni fa alla Mostra del Cinema di Venezia. Oggi, in mezzo una carriera che gli ha regalato l’Oscar per La grande bellezza nel 2014 e premi internazionali da riempire un paio di vetrinette, Sorrentino ha scelto nuovamente la Mostra per il suo E’ stata la mano di Dio (nei cinema selezionati dal 24 novembre, su Netflix dal 15 dicembre), il film più personale, che affronta per la prima volta la tragedia che lo colpì quando da ragazzo perse i genitori per una fuga di gas nella casa di montagna. Con lui, nel ruolo del padre, ancora una volta Toni Servillo.
Sorrentino che rapporto ha con questo festival?
«Vent’anni fa eravate tutte sedute davanti a me come ora, tutte donne, giovani come adesso, e non mi avevano nemmeno detto cosa dovevo fare. E pensavo dentro di me: “Che bello, una quindicina di donne che mi guardano sorridenti…”. Poi ho capito che dovevo parlare. Sono passati vent’anni da “L’uomo in più”, ora sono di nuovo qui e mi piace pensare di essere di fronte a un nuovo inizio».
Sente che questo festival può essere una ripartenza e un ritorno alla normalità?
«Lo spero. Se ci vedessimo senza mascherine sarebbe meglio: prima vi osservavo e
non riuscivo a capire se eravate allegri o tristi. Quanto al cinema, penso non si sia mai fermato. Sento dire che ci sono produzioni dappertutto, sogno un gioioso ritorno alle sale. E qui in questa Mostra c’è un programma meraviglioso: i bei film continuano a essere fatti senza sosta. Anche se come registi ci siamo chiesti cosa dovessimo raccontare dopo il Covid».
Lei ha scelto una storia personale, rivangando un dolore indicibile.
«In questi anni la famiglia mi ha aiutato a tenermi a galla e a essere felice, ma mi ero stufato del mio trentennale monologo interiore. All’inizio questa storia l’avevo pensata come qualcosa da lasciare ai miei figli ai quali volevo spiegare alcuni comportamenti da adulto che continua a essere infantile. Certi dolori, certe perdite, creano un’interruzione della giovinezza e si invecchia di colpo, ma si resta anche bambini. Io volevo raccontare che il futuro ci può essere per tutti, anche per quelli che partono con un handicap, se questa parola si può dire».
Poi è diventata un film molto diverso da quelli fatti finora.
«In questo film volevo dare spazio totale ai sentimenti. Io sono molto pauroso nella vita, ma quando faccio film mi ritengo molto coraggioso».
Ci ha abituato a colonne sonore bellissime. Qui non ci sono canzoni, tranne alla fine.
«Fabietto, il protagonista, è di fronte a una desertificazione dei sentimenti e nessuna musica può arrivargli così. Alla fine, quando monta sul treno, riesce finalmente a sentire la musica, perché anche per lui può esserci futuro».
E Maradona?
«Io credo in un potere semidivino di Maradona».