Corriere di Verona

Del Giudice, l’ultimo volo della scrittura perfetta

Lo scrittore viveva a Venezia. Domani il Premio Campiello alla carriera Scoperto da Italo Calvino, è considerat­o il maggiore autore contempora­neo

- Di Giovanni Montanaro

È morto ieri mattina alle 6 a Venezia lo scrittore Daniele Del Giudice, 72 anni. Da molti anni era ammalato di Alzheimer e si è spento nella clinica alla Giudecca dov’era ricoverato. Domani il Premio Campiello all’Arsenale di Venezia gli dedicherà il riconoscim­ento alla carriera

Domani sera, Daniele Del Giudice non sarebbe andato all’Arsenale di Venezia a ritirare il Premio Campiello alla carriera, il riconoscim­ento che la giuria dei letterati ha avuto quasi il presagio di assegnargl­i a luglio.

Da troppi anni, infatti, Del Giudice era ostaggio di una malattia rovinosa. Come a mordere una mela, l’Alzheimer pian piano gli ha tolto l’intelletto, le parole. Eppure, le parole che ci lascia continuano a rischiarar­e la sua vita rigorosa, anche dolorosa. Erano un rumore, quelle parole, un battito; le due dita che Del Giudice usava sulla tastiera di una macchina da scrivere Underwood che suo padre gli aveva regalato poco prima di morire. «Pareva scrivesse da sola», diceva. Era solo un bambino, Del Giudice, quando restò orfano e accettò quel dono come un fragoroso destino. Scriveva, Del Giudice. Scriveva nel collegio dove la mamma, risposata, aveva deciso di mandarlo. Scriveva per Paese Sera. Scriveva all’Einaudi, dove faceva il consulente editoriale. Scriveva a Roma dove era nato, a Milano. A Venezia, dove si era trasferito per amore, a metà degli anni Ottanta, e dove ha passato gli ultimi anni ritirato all’isola della Giudecca. Scriveva, ma pubblicava poco. «Un giorno abbiamo avuto una discussion­e sull’impossibil­ità di cominciare a scrivere. Lui scriveva sempre lettere o appunti, ma se doveva scrivere una pagina aveva delle difficoltà tremende», dice Ljuba Blumenthal (la «Ljuba che parte» della poesia di Montale), quando accoglie il narratore de Lo Stadio di Wimbledon (1983). È solo un giovane, un alter-ego di Del Giudice non ancora quarantenn­e, che cerca le tracce di Bobi Bazlen, intellettu­ale triestino della prima metà del Novecento, che mai ha pubblicato un libro in vita. Fu l’esordio di Del Giudice, fu un grande successo di pubblico. Seguì Atlante Occidental­e (1985), l’amicizia tra Ira Epstein, un vecchio, famoso, scrittore tedesco, e Pietro Brahe, giovane fisico italiano del Cern; è il dialogo tra scienza e letteratur­a, numeri e verbi, nato da uno scontro tra i velivoli dei due protagonis­ti: «l’altro aereo veniva sbieco, così vicino e così basso che immaginò il cupolino tranciato dall’elica». Al volo (grande passione di Del Giudice) sono dedicati gli indimentic­abili racconti di Staccando l’ombra da terra (1994), tra Saint-Exupéry e l’aeroporto Nicelli del Lido. In mezzo, Nel museo di Reims (1988) con l’immagine di Barnaba, giovane ex ufficiale della Marina Italiana, che sta diventando cieco e passa il tempo davanti ai dipinti del museo per memorizzar­li, finché non arriva Anne. Seguiranno Mania (1997), Orizzonte Mobile (2009), e poi In questa luce (2013). Sempre pubblicato da Einaudi, Del Giudice fu lanciato da Italo Calvino con cui collaborav­a. Calvino, nella quarta di copertina de Lo Stadio, scrisse, riferendos­i al protagonis­ta ma soprattutt­o all’autore: «Il giovane ha fatto la sua scelta: cercherà di rappresent­are le persone e le cose sulla pagina, non perché l’opera conta di più della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all’oggetto, in un’appassiona­ta relazione col mondo delle cose, potrà definire in negativo il nocciolo irriducibi­le della soggettivi­tà, cioè se stesso». Grande intellettu­ale, Del Giudice è stato protagonis­ta della vita culturale italiana e veneziana. Si è inventato nel 1999 Fondamenta, un ciclo di incontri, da Saramago a Magris; più che un festival (Del Giudice non li amava troppo) era il tentativo di creare una comunità tra scrittori e lettori. Ha collaborat­o con Paolini, proprio su Ustica. Ha scritto articoli con garbo; ha coltivato polemiche con benedetta intransige­nza. Dire che con Del Giudice se ne va il più grande scrittore italiano degli ultimi quarant’anni non è un vezzo, o una censura alla letteratur­a à la page più svaporata. È solo la constatazi­one che Del Giudice, ormai troppo poco letto, è stato il più bravo. Perché, seguendo Calvino ma facendolo più concreto, ed evitando ogni tentazione retorica o della politica più deteriore, ha raccontato la grande avventura umana di ogni individuo. Perché scriveva con naturale serietà e familiare eleganza di amici e computer, di amore e fusoliere, di pullover e diatribe, della fangosità dell’amarezza e del bagliore dell’allegria, della solidità vitrea dei sentimenti, della corrida dei fallimenti umani, che sempre rivelano inaspettat­e grandezze. Perché nessuno scriveva come lui; con il suo stile esatto, la scrittura come matematica. Daniele Del Giudice si è spento alle sei di ieri mattina, poco prima dell’alba; negli ultimi anni lo accudiva un gruppo di amici, oltre alla moglie Duccia Zilio Grandi. Nato nel 1949, aveva compiuto settantadu­e anni l’undici luglio.

Ciascuno di noi pensa già al filo quasi rettilineo che ci riporta a casa, a Venezia...sorriderem­o, di nuovo ricongiunt­i alla nostra ombra (Da «Staccando l’ombra da terra»)

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Del Giudice ritratto a Venezia in una delle ultime foto prima del ricovero in clinica (Foto per gentile concession­e dell’Archivio Graziano Arici)
Sguardi Daniele Del Giudice ritratto a Venezia in una delle ultime foto prima del ricovero in clinica (Foto per gentile concession­e dell’Archivio Graziano Arici)

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