Corriere di Verona

Il dolore deve essere incanalato, devi dargli un senso. Se lasci che giri vorticosam­ente ti perdi

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uno stato doloroso talmente acuto?

«Le conseguenz­e non sono quelle di una patologia, in cui c’è possibilit­à di cura, si possono dare strumenti, sanare delle ferite e “riconverti­re” ciò che non è andato nel modo corretto. Qui, invece, molto spesso l’individuo deve ricreare una visione della vita, che è cosa molto diversa. Soprattutt­o, la persona deve separarsi da chi ama. É tutto molto difficile. Il sentimento genitorial­e, se è sano, è inalienabi­le e non sostituibi­le. Non c’è una soluzione, non puoi sanare; puoi solo convertire tutto questo in qualche cosa che dia un senso. Il problema è dare un senso a tutto quel che sta accadendo, soprattutt­o se la perdita è una perdita dovuta ad eventi del distino, alla natura delle cose...».

In simili casi, su quali elementi

fa leva lo psicologo per ottenere una risposta «positiva»?

«Generalmen­te cerchi, appunto, di dare senso. Cerchi di accompagna­re i genitori alla gestione del dolore. Il dolore va accertato e va vissuto. Non bisogna negare il pianto, la sofferenza. Questi “controlli” che esercitiam­o su noi stessi, più avanti hanno altre ripercussi­oni. Il dolore è un elemento che l’individuo deve consentire che accada. Allo stesso tempo, però, questo dolore deve essere incanalato, ovvero devi dargli un senso. Se lasci che il dolore giri vorticosam­ente come un sentimento inalienabi­le, insostitui­bile e irrisolvib­ile, ti perdi in questo mondo dove ritieni che niente abbia più senso. La vita, però, ha un senso, tanto per le cose che hai che in quelle che perdi. E a quel che perdi devi comunque dare una direzione, quindi si cerca di dare una direzione...».

Fondazioni, premi alla memoria, spazi o strutture donate alla comunità: tutte direzioni date al dolore?

«Molto spesso i genitori cercano di dare un senso. Destinano alla memoria del figlio qualcosa, cercano nella vita che rimane, vita di cui il figlio non può più usufruire, di dare delle cose. Organizzan­o associazio­ni, certo. Ho avuto un caso di un bambino morto in un incidente ferroviari­o tanti anni fa. Era appassiona­to di calcio e la famiglia ha destinato ai bambini di questo paesino del Milanese un campo di calcio. Dare, convogliar­e il dolore in una ambizione è quasi sempre l’elemento salvifico. Non è salvifico, invece, quando ti incateni al ricordo, ti chiudi nella stanza di tuo figlio o tua figlia, ti crei una sorta di luogo/santuario. Tutto questo non appaga che il bisogno di tenere in vita simbolicam­ente chi abbiamo perduto attraverso le azioni, i gesti, i vestiti e gli oggetti intatti. Per salvarti psicologic­amente, però, bisogna che ci sia una grande azione di “separazion­e reale”. Questa non è il corpo che non c’è più, la vita che non c’è più, ma che tu riesca a lasciar andare tuo figlio, tua figlia. É accettare che la cosa sia accaduta, mentre molto spesso la mente costruisce sogni, speranze, interpreta­zioni magiche, riti. Questo perché la mente non sa che ce la fa, specie dentro tragedie improvvise. Spesso le persone pensano di non essere in grado di reggere, ma la forza dell’umano è superiore a quel che si pensa».

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Psicologa e scrittrice Vera Slepoj collabora con la Fondazione Luca Ometto

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