Le visite medico sportive fermano due ragazzi su mille e uno su cento tra gli over 35
Mezzo milione di atleti, ecco come funziona la prevenzione
VENEZIA Carlo Alberto Conte, il 12enne atleta delle Fiamme Oro Padova morto martedì sera a causa dell’infarto patito domenica, ormai al traguardo della sua prima campestre, era idoneo alla pratica sportiva. A novembre era stato sottoposto alla visita imposta da Federatletica ed era arrivato il nulla osta medico. L’autopsia dira cos’è sfuggito ai controlli dei dottori ma, intanto, si può chiedere qualcosa proprio sui controlli. Subito un po’ di cifre. Il Veneto (dato 2019 dai Numeri dello sport veneto, ricerca della Regione) ha 487.915 atleti tesserati, per 5.430 società sportive e 45 federazioni nazionali rappresentate. Conoscere il monte degli atleti è anche l’unico modo per stimare quante visite medico-sportive si effettuino ogni anno: una pro capite, i numeri sono molto vicini.
Con Maurizio Varnier, specialista in Medicina dello sport e Cardiologia, per vent’anni in Azienda ospedaliera dell’università di Padova ed ex medico sportivo del Padova Calcio e del Cittadella, entriamo nei dettagli: «Intanto distinguiamo le visite sportive agonistiche e le non agonistiche». È richiesta una o l’altra in base ai «criteri dati dalle singole federazioni sportive, che, in genere in base all’età, decidono quali atleti rientrino nell’una o l’altra categoria. L’agonistica, verosimilmente, potrebbe riguardare il 70% delle visite». Ogni anno, dunque, si fanno circa 300 mila visite più approfondite. E le altre? «I non agonisti- ancora Varnier - hanno degli accertamenti un po’ meno approfonditi. Possono essere fatti non solo dal medico sportivo ma anche dal medico di Medicina generale e dal pediatra di libera scelta. Richiedono un elettrocardiogramma al momento della prima visita, ripetuto se il medico lo ritiene necessario. È un esame a obiettivo, la determinazione della pressione arteriosa...». Il dubbio è immediato: i secondi sono meno sicuri? «Dopo la morte di Morosini (il 26enne mediano del Vicenza ucciso da infarto sul campo nel 2012, a 26 anni, ndr) i protocolli per l’attività sportiva agonistica sono rimasti invariati. È stato invece creato un protocollo specifico per gli accertamenti ai non agonisti e un’altra cosa molto importante: é stata resa obbligatoria la presenza del defibrillatore in tutti i luoghi di pratica sportiva».
Ma quali sono le cause di morte nello sport? Stavolta risponde Patrizio Sarto, primario di Medicina sportiva dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso: «In medicina sportiva distinguiamo gli over 35 e gli under 35, le cause degli eventi frequenti sono molto diverse.
Per i secondi, dalla letteratura internazionale e ricerche dell’Usl di Treviso con l’ateneo di Padova, sappiamo che la prevalenza di patologie durante la valutazione medico sportiva che potrebbero essere causa di morte improvvisa è fra il 3 e il 4 per mille. Nel 95% dei casi sono malattie genetiche o cardiomiopatie su base genetica durante una fase di sforzo. I casi gravi sono molto rari, perché le patologie vengono individuate durante la valutazione». E per gli atleti con età più alte? «Oltre alle cause di morte improvvisa riscontrate negli under, dobbiamo aggiungere la malattia coronarica e l’eccesso di fattori di rischio come fumo, ipertensione, colesterolo non trattato, sedentarietà, obesità, valutando anche familiarità con episodi cardiaci, come la morte per infarto di un genitore».
Altro punto chiave: quanti non superano i controlli? «Uno studio fatto dalla Medicina dello sport di Noale su dieci anni di visite - di nuovo Varnier parla di circa 1,9 casi su mille per i soggetti sotto i 35 anni, di un caso su cento per gli over 35». Cinque volte di più, quindi, e proprio per i fattori indicati sopra dal dottor Sarto, che aggiunge un elemento generale ma strettamente connesso al presente: «Un altro problema, non prevedibile, sono i fenomeni infiammatori acuti del cuore dovuti a un’influenza, a una gastroenterite, al Covid. Sappiamo che i virus possono generare fenomeni infiammatori cardiaci, anche senza una sintomatologia caratterizzante. Abbiamo dovuto aggiungere il Covid perché questo virus può generare patologie cardiache, rare ma presenti». Il virus ha imposto un cambio nelle procedure per il via libera agli atleti: «Anche se l’atleta ha l’idoneità, se contagiato, dopo la guarigione dovrà rispettare uno stop di 30 giorni ed essere poi rivalutato clinicamente, con test da sforzo ed elettrocardiogramma da confrontare con gli esiti precedenti all’infezione. Questo protocollo è fondamentale: il fisico esce da una fase infiammatoria, serve una ripresa graduale e corretta, non solo per il Covid ma per tutte le forme infiammatorie sistemiche. Alcuni atleti non superano la visita medico sportiva, in base a studi del 2020 nel 2% dei casi under 30 il Covid può generare un’infiammazione miopericardica di diversa entità. Alcune si risolvono bene».
Il rinnovo del certificato si chiama «Return to play»: sacrosanto, ma qualche problema ha portato: «È complicato spiega Varnier -. Sono state adottate direttive poi modificate con l’incremento delle conoscenze sul virus. La modifica è recente (circa un mese fa, ndr) e, probabilmente, deriva dal fatto che le prime norme erano troppo penalizzanti, con esami difficili per arrivare all’idoneità da parte di soggetti, specie di giovane età, che nella stragrande maggioranza avevano avuto un Covid asintomatico e senza complicazioni secondarie. Si era, però, mantenuto un regime prudenziale. Ecco, col protocollo rigido le società sportive erano piuttosto disperate. Quelle professionistiche possono fare tutti gli esami possibili senza problemi, ma le dilettantistiche avevano difficoltà...». Qualcuno ha scantonato? «Per far passare i trenta giorni dal momento della guarigione agli accertamenti e poi gli accertamenti stessi si perdeva, praticamente, tutta o quasi la stagione... Posso anche immaginare che qualche società abbia trovato anche qualche mezzo non lecito».