«Io, poliziotto e scrittore anche per esorcizzare la paura della depressione»
Il primo romanzo di Trevisi: «Ho visto mia mamma spegnersi»
Pagina 18: « Durante i primi giorni del Grigio Anna riesce ad alzarsi dal letto a fatica, ma ce la fa; quando, però, si accorge che anche il cielo, nonostante l’ultima nuvola ci sia passata in mezzo una settimana fa, è grigio, abbassa le tapparelle e chiude finestre e occhi». Un romanzo, che è un diario. Che, come ogni diario, è un giornale dell’anima. E che arriva dopo una serie di racconti. «Autobiografico», viene definito questo romanzo. Scaturito dalla penna e dalla vita di Gianpaolo Trevisi. «E se quel giorno ti avessi incontrato», il titolo. Prefazione di Vittorino Andreoli. «Autobiografico» come in realtà è ogni scritto di Trevisi, che del vergare parole ha fatto da sempre il suo amuleto. Poliziotto con la penna, Trevisi. Direttore della Scuola della Polizia di Stato di Peschiera. Con alle spalle un ventennio costellato di «strada», dall’ufficio immigrazione alla squadra mobile. E con quella giubba blu che s’impasta col suo raccontare. «L’essere poliziotto mi aiuta a scrivere e lo scrivere mi aiuta ad essere poliziotto», dice. Racconta, «E se un giorno ti avessi incontrato» che è edito da Gabrielli, di Anna e Davide. E racconta di Gianpaolo Trevisi. Di sua madre. E del «grigio», la depressione. Quella che scandisce il tempo di Anna ma anche, come vuole la malattia, anche quella di chi corolla le vite in cui s’incunea.
Primo romanzo e, per chi la conosce, sembra di leggere lei in molte pagine, a partire dalla figura di Davide che è poliziotto e che ha un nome che nella sua vita ritorna. E poi Anna - anche questo un nome che lei ha nel cuore - e la depressione...
«Scrivere questo romanzo è stato terapeutico. Ho rivissuto quel periodo con la mia mamma. Anna è il suo nome, ma in famiglia noi la chiamavamo Lalla. E nel libro Lalla è la migliore amica di Anna. Davide è il nome di mio figlio, Davide che è anche Davide Turazza, che per me c’è sempre, come c’è sempre sua madre Teresa. Però Davide e Anna insieme sono io, nel senso che io sono uno abituato a mangiare le emozioni, che stravive. È stato come fare un’autoanalisi man mano che mi leggevo».
E poi c’è il «grigio», la depressione, che diventa quasi una presenza fisica con tanto di nome...
«Negli ultimi anni della sua vita mia mamma soffriva di depressione. Ed era proprio quel “grigio” lì. Credo di essere riuscito a descriverlo abbastanza bene, perché l’ho vissuto attraverso lei. La mia mamma era un vulcano che improvvisamente si spegneva. Poi quando passavano quei periodi c’erano quelli dell’euforia. Anna e Lalla sono questo. Ma nonostante la depressione la vita di mia madre è stata una vita serena e piena. Anche sua mamma ne soffriva. Quando ci penso mi viene una paura terribile e forse alla fine ho scritto il libro anche per esorcizzare questa cosa».
Davide nel libro ha l’amarezza di essere stato un «operativo» alla squadra mobile e poi di essere andato in una scuola di Polizia. Lei lo ha questo rimpianto?
«Forse un po’ all’inizio, poi devo dire che con il tempo è svanito. La mobile l’ho fatta e sono strafelice di averla fatta, ma non sono proprio il classico “mobiliere”. Ho sempre in mente una frase di De Gregori, quella che dice che tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi. Il bufalo può scartare di lato e cadere, la locomotiva fa sempre la stessa strada, non sbaglia mai. A me nella vita è piaciuto fare un po’ il bufalo, ogni tanto casco, ma va bene così».
La vita da scrittore è quella da bufalo e quella da poliziotto è quella da locomotiva?
«Sì, anche se poi le cose si mischiano, perché anche da poliziotto qualche volta il bufalo l’ho fatto e continuo a farlo. È chiaro che in polizia devo cercare di stare più regolato, ed è giusto cosi. Non mi sento stretto, amo immensamente il mio lavoro e sono strafelice di farlo. Non trovo che siano due cose disgiunte, lo fai e una cosa alimenta l’altra».
Essere un po’ «bufalo» e scrittore aiuta a formare i futuri poliziotti anche umanamente, evitando di creare dei Robocop?
«Ci speri tanto. Io insisto sul fattore umano, sullo spiegargli che servono i regolamenti, servono i codici, ma non bastano. Ho avuto le mie soddisfazioni. Una volta alla Scuola venne Gino Spiazzi, ex deportato storico presidente di Aned Verona. Il fine settimana dopo 7 ragazzi invece di andare a casa presero un volo low coast e andarono ad
” «Bufalo» e «locomotiva» È chiaro che in polizia devo cercare di stare più regolato, ed è giusto cosi. Ma non mi sento stretto
Auschwitz a vedere il campo di concentramento. L’altra quando un poliziotto salvò una donna, che aveva chiamato il 113 dicendo di volere ordinare una pizza. Era un mio ex allievo di Peschiera. E in cuor mio mi sono detto “vedi aver sottolineato tanto quanto sia importante l’empatia, il saper ascoltare”...Vuol dire che hai stimolato la sensibilità. Quella che nel nostro servizio è fondamentale».