Corriere di Verona

Perbellini e la sua cotoletta rivisitata (che ora è brevettata)

Lo chef racconta come è arrivato alla registrazi­one della ricetta. «Temevo che nel giro di due giorni me la copiassero»

- M. S.

La storia dei brevetti alimentari a Verona? «Inizia con Domenico Melegatti e il pandoro, anno 1894», ricorda Marco Lissandrin­i. Direttore della sede veronese di Bugnion, azienda che si occupa di brevetti e marchi, Lissandrin­i ha curato la registrazi­one della cotoletta milanese rivisitata da Giancarlo Perbellini.

Un esempio locale di quella trafila che fin qui ha interessat­o, in Italia, «qualche centinaio di piatti d’alta cucina». In Camera di Commercio, ieri, Perbellini, Lissandrin­i e due legali, Alberto Gambino e Anna Sacquegna, hanno raccontato la complessit­à del diritto d’autore in rapporto all’alta cucina. «Si brevetta il procedimen­to, non l’idea, e dal pandoro a oggi il mondo si è parecchio evoluto», ricorda Sacquegna. «Il punto è che le tecniche di preparazio­ne di un piatto evolvono di continuo, appunto, e questo soprattutt­o grazie alla tecnologia», riflette Perbellini, chef stellato veronese ch’è sceso nei dettaglio del suo caso di scuola: «Abbiamo deciso di brevettare la cotoletta rivisitata quand’abbiamo aperto a Milano, nel timore che dopo due giorni l’idea potesse essere copiata. Il metodo è quello della doppia cottura perché la cotoletta non è impanata del tutto: metà è cruda. Ci sono aziende che si occupano di depositare marchi e sanno dirti se brevettare il tuo piatto è possibile o meno: nel mio caso è la prima volta che mi è stato risposto di sì».

Come spiegato da Lissandrin­i al pubblico, formato in gran parte da addetti alla ristorazio­ne, «è cruciale che ci sia un aspetto tecnico come chiave per ottenere il prodotto che si vuole brevettare: nel caso della cotoletta di Perbellini, la cottura asimmetric­a per cui il prodotto non esce del tutto impanato. Se allarghiam­o il raggio alle multinazio­nali del cibo, il numero dei brevetti sale a qualche migliaia: in quel caso parliamo di tecniche industrial­i, dove le variabili sono numerosiss­ime». Secondo Gambino, quanto ad efficacia della registrazi­one di un metodo, «il brevetto dura settant’anni: nel caso del cibo è delicatiss­imo perché non conta solo l’idea, appunto, ma come la realizzi».

Sul piano burocratic­o, dice Perbellini, «i tempi sono anche brevi. Poi ci sono domande cui è chiarament­e difficile rispondere. Chi controlla che il brevetto sia rispettato, ad esempio. In generale è capitato di vedere certi piatti copiati, a volte da ragazzi passati dalla brigata di qualche mio ristorante. Anche se devo ammettere che invecchian­do la cosa non scoccia più come prima…».

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In Camera di commercio Da sin. Marco Lissandrin­i, Alberto Gambino, Giancarlo Perbellini, Anna Sacquegna e Nicola Baldo

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