Corriere di Verona

Il Giro in casa

E il ciclismo: «Guardo le gare, ma sono deluso dai corridori che non sanno più soffrire» «Mai salito su una bici, aspetto ancora quella che doveva regalarmi mio padre da bambino»

- Andrea Pistore

Insieme a miglia di tifosi, oggi sulle strade del Giro sarà presente anche l’alpinista e scrittore Mauro Corona (nella foto Sestini). La tappa con la partenza da Longarone ricorda i 60 anni dalla tragedia del Vajont del 9 ottobre del 1963, quando morirono oltre 2mila persone.

Corona, bicicletta e Vajont sono sempre stati legati, ha qualche ricordo particolar­e?

«Prima della tragedia i ragazzi di Erto, tra cui anche mio cugino Bepo, scendevano ogni giorno con la bici fino a Longarone per andare a scuola a imparare il mestiere di falegname, muratore o piastrelli­sta. Succedeva anche in inverno sotto la neve. Alla sera risalivano e lo facevano senza tanto fiatare. Non dico di tornare come allora ma oggi basta un piccolissi­mo intoppo e tutto diventa un ostacolo insormonta­bile».

La sua prima bicicletta che modello era?

«Le confido una cosa: non ho mai avuto una bici e non l’ho mai usata perché sto ancora aspettando quella che ha promesso di comprarmi mio padre da bambino. La mia era una famiglia in miseria, eravamo tre fratelli e sono cresciuto con i nonni paterni. Ancora oggi attendo quel regalo che voleva farmi ma che non è mai arrivato».

Ci sta dicendo che non è mai salito in sella a una bici?

«Adesso che sono un pagliaccio semi pubblico me ne regalano diverse. Una elettrica me l’ha data Francesco Moser ma preferisco non usarla. Me ne ha regalata una anche Giovanni Battaglin, il vincitore del Giro del 1981, che è tradiziona­le e non a pedalata assistita. La apprezzo di più».

Lei però è sempre stato appassiona­to di ciclismo…

«Fin da piccolo ho guardato il Giro ma anche il Tour e la Vuelta. È uno sport di fatica e a 73 anni la fatica mi fa ancora felice. La corsa rosa è sentimento ed emozione».

Che Giro d’Italia era quello della sua infanzia?

«Nel dopo guerra il ciclismo era più vissuto del calcio. C’erano i “Bartaliani” e i “Coppisti”, mio padre era per Coppi, mio zio per Bartali, e spesso venivano alle mani. Io li guardavo e cercavo di capire il perché. Non c’erano gli atleti di oggi e gli sportivi non pensavano solo a se stessi o all’ingaggio. Un atleta deve competere anche per gli altri perché se pedali e basta non servi a niente. Pensiamo a Bartali e a quanti ebrei ha salvato senza farne pubblicità».

C’è qualcosa che non le è piaciuto, finora, di questa

edizione della corsa rosa?

«Quanto accaduto in Val d’Aosta (tappa accorciata a poco più di 70 chilometri per maltempo, ndr). Se i corridori non hanno voglia di pedalare sotto la pioggia che vadano a piantare radicchio nell’orto. Hanno rifiutato una gara che si poteva disputare benissimo. Il Giro non è solo una tappa vinta in volata o in salita ma tutto l’indotto che crea nei paesi che pagano migliaia di euro per far arrivare la corsa. Serve più rispetto per il Giro che non è un istituto di beneficenz­a. Rovinare un’intera regione per quattro “fighetti” che non hanno voglia di bagnarsi non va bene. Non funziona così».

È anche vero che nelle prime due settimane i corridori hanno preso tanta acqua…

«Chi li difende sbaglia. Guardi le foto di Binda, Girardengo, Learco Guerra che sulle Tre Cime salivano in mezzo a un metro di neve con la bicicletta sulle spalle. Lo sport deve essere anche eroismo altrimenti che stiano a casa».

Tornando al Vajont, i fatti dell’Emilia Romagna le hanno ricordato quelli di sessant’anni fa?

«Qui ci sono stati 2mila morti, chi paragona le due cose sbaglia. Non vanno confuse le alluvioni con quanto accaduto qua. La diga del Vajont è stata costruita dagli uomini, l’Emilia Romagna non è un fatto doloso perché è frutto di una speculazio­ne che non ha immaginato le conseguenz­e a trent’anni ma solo quelle del giorno dopo».

Quant’è importante l’omaggio del Giro a Longarone?

«Molto, perché questa tragedia non può essere dimenticat­a. La corsa rosa porta giorni di festa e anche soldi ma il problema è far resistere l’indotto, come ad esempio per le Olimpiadi. L’edificio costruito per un evento poi deve durare altrimenti sono tre giorni di musica e canti ma poi si torna nell’oblio. La bicicletta deve portare brio per le zone povere ma poi quel valore aggiunto deve restare».

Avere la corsa rosa a Longarone è molto importante per non dimenticar­e il Vajont Ma poi qualcosa deve restare: l’indotto di un giorno non serve a questa gente

Chi difende le proteste dei ciclisti per la pioggia sbaglia: ricordate Binda e Girardengo? Lo sport deve essere anche eroismo, chi non se la sente stia a casa

Prima della tragedia i ragazzi di Erto, tra cui mio cugino Bepo, scendevano fino a Longarone in bici per andare a scuola: lo facevano anche con la neve, senza fiatare

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