Da Autonomia Operaia al Nobel per la Medicina Le tre vite di Pancino
Padovano, capo delle contestazioni imputato nel Processo 7 aprile, latitante a Parigi con Toni Negri In un libro la sua esistenza da film
Tre vite: la politica, la latitanza, l’esilio, il carcere e la ripartenza come scienziato e direttore di ricerca dell’Istituto Pasteur di Parigi. Gianfranco Pancino di Padova, tra i fondatori di Autonomia Operaia negli anni di piombo, imputato nel Processo 7 aprile, latitante, poi arrestato, oggi è conosciuto in tutto il mondo per le ricerche sull’Hiv nel team della Premio Nobel per la medicina Francoise Barrè Sinoussi. Dall’eskimo e la barba lunga dei cortei di piazza al frac nella serata di gala del Premio Nobel al camice nei laboratori di ricerca. Un’esistenza come la trama di un film, che Pancino racconta nel libro Ricordi a piede libero (Mimesis editore 468 pagine, 28 euro). «In tutte le mie vite mi sono posto delle sfide – sottolinea - cambiare me stesso e la società, vivere e non accontentarmi di sopravvivere».
Pancino, quale delle «tre vite»
è stata la migliore?
«Sono cambiato e continuo a cambiare grazie alle mie esperienze, alle persone che ho incontrato, all’empatia con cui ho guardato chi subisce ingiustizie o soffre di malattie. I movimenti di lotta e di rivolta a cui ho partecipato dal 1968 al 1977 hanno profondamente mutato la società. Nella mia vita ci sono stati periodi difficili o dolorosi, la latitanza e i primi anni d’esilio con la minaccia dell’estradizione, senza documenti per 4 anni e mezzo, ho fatto qualsiasi tipo di lavoro per sopravvivere. Era come se non esistessi. Ma ognuna delle mie vite mi ha offerto esperienze e sensazioni indimenticabili».
Tra le manifestazioni di Autonomia Operaia e la lotta per cambiare la società, scriveva poesie e leggeva letteratura. Ha trovato consolazione o ispirazione?
«Ispirazione senza dubbio, le letture hanno sempre accompagnato e guidato la mia vita, scrittori come Fëdor Dostoevskij, Vassili Grossman, Michail Bulgakov o Gabriel Garcia Marquez hanno portato vere illuminazioni. La poesia anche, da Leopardi a Montale, da Dante a Goethe, da Eliot, Neruda, Carlo Emio Gadda. Scrivere ha accompagnato i miei amori e le mie gioie. Mi ha anche consolato nei momenti più penosi, quando il dolore diventava troppo intenso, per la morte di mio fratello, per la prigionia dei compagni o per la fine delle nostre speranze rivoluzionarie».
Un momento difficile del periodo della cosiddetta «strategia della tensione»?
«Le stragi cosiddette di Stato ci riempivano d’orrore e di rabbia. E hanno spinto molti militanti della sinistra extraparlamentare a pensare che le istituzioni italiane fossero definitivamente corrotte e gli spazi politici di contestazione si chiudessero, spingendo alla scelta delle armi per continuare la lotta».
In che rapporti era con Toni Negri?
«Toni Negri era un amico. L’ho incontrato nel 1969 davanti a una fabbrica di Padova dove gli operai erano in sciopero. Abbiamo poi condiviso forti esperienze politiche, la militanza in Autonomia Operaia e in Rosso a Milano e molti anni d’esilio a Parigi. Discutevamo di tutto. Le opere teoriche di Toni costituiscono uno dei più importanti contributi al rinnovamento e allo sviluppo del marxismo tra i secoli XX e XXI. Tante le serate e le feste trascorse insieme. Negli ultimi anni della sua malattia siamo stati molti vicini, ho cercato di assisterlo anche come medico».
Come ha vissuto a Padova gli anni di piombo e la lotta armata?
«Su Wikipedia si legge che gli anni di piombo si riferiscono al periodo che va dal 1969 all’inizio degli anni ‘80 e che iniziano dalla strage di Piazza Fontana. A mio parere questa definizione confonde e nasconde la realtà politica di quel periodo. Da una parte ci sono stati gli attentati fascisti, dall’altra l’accelerazione della lotta armata. Dal 1967 al 1977, però, l’Italia ha avuto vasti movimenti di contestazione sociale. Centinaia di migliaia di giovani, uomini e donne, scendevano nelle piazze con le loro speranze e slancio rivoluzionario. Celare quella primavera italiana sotto la definizione di “anni di piombo” è un falso storico. Io ho partecipato a quei movimenti, a Padova e a Porto Marghera e poi a Milano».
Si è mai considerato un terrorista?
«No! Questo termine non è mai stato usato neppure negli atti processuali, dove mi si accusava di “costituzione di banda armata e sovversione contro i poteri dello Stato”, mai di terrorismo. Penso che questa definizione, oggi ampiamente abusata, debba essere riservata a chi compie attentati che colpiscono la gente alla cieca, per indurre un clima di terrore, come sono stati la bomba alla Banca dell’Agricoltura a Milano, quelle sul treno Italicus e le altre stragi dette di Stato. Gli anni in cui venivo dipinto come terrorista ho sofferto molto».
E’ stato arrestato, costretto all’esilio e alla latitanza, ma ha anche portato avanti gli studi di medicina e la ricerca scientifica, fino a diventare direttore di ricerca all’Istituto Pasteur di Parigi.
«Ho grande determinazione e tenacia. Volevo fare ricerca scientifica già nel 1969, ma avevo scelto allora l’impegno politico. Quando sono approdato in Francia ho tentato di seguire l’antica passione. Per due anni Loredana, la mia compagna, e io abbiamo lavorato per vivere e crescere nostro figlio. Mi è bastato lo spiraglio aperto da un direttore argentino di un’Unità di Ricerca nel 1984, che mi ha accolto nel suo laboratorio, in incognito e senza salario, per gettarmi totalmente nella scienza. A forza di studio e lavoro accanito ho ottenuto un dottorato in scienze e ho vinto un concorso di direttore di ricerca. Ho poi diretto un’equipe di ricerca sull’Hiv nell’Unità di Françoise Barré-Sinoussi, scopritrice del virus Hiv e Premio Nobel».
Rimpianti?
«Sul piano politico, avrei dovuto comprendere i rapporti di forza disuguali tra i movimenti e le istituzioni e oppormi decisamente alla deriva di molti giovani verso la lotta armata. Ma dubito che una mia presa di posizione avrebbe cambiato qualcosa. Nella mia vita sono stati molto importanti i compagni con cui ho condiviso idee e emozioni, gli amici francesi che mi hanno accolto e aiutato. E le donne, in particolare mia madre che mi ha formato all’onestà morale e mi ha insegnato il valore dell’amicizia e mia moglie Loredana, la forza vitale che mi ha sostenuto».
Oggi qual è il suo obiettivo?
«Fare conoscere il mio libro. E come ho fatto all’inizio della pandemia da Covid, sono pronto a impegnarmi in campagne d’informazione sulla sanità. Nel frattempo continuo a godermi la pensione con la lettura e studiando il tedesco. Oltre a curare le rose del mio giardino».
” Le mie sfide: cambiare me stesso e la società, vivere, non accontentarmi di sopravvivere Ho sofferto quando mi chiamavano terrorista