Corriere di Verona

I DIRITTI, I PRIMI E GLI ULTIMI

- Di Stefano Allievi

Sappiamo che è difficile non condivider­e tutte le leggi «prima noi»: ci sembrano intuitive. Prima noi per le case popolari, le borse di studio, i posti in istituto per anziani e disabili, gli asili nido e qualunque altra graduatori­a. Prima chi vive sul territorio, ci paga le tasse e ci ha messo radici. Sembra evidente: ecco perché questi ragionamen­ti sono così popolari. Sappiamo anche che la questione è più simbolica che sostanzial­e: in fondo ci sono altri criteri che giocano (dal livello di reddito al numero di figli alla presenza di anziani), e quindi la discrimina­zione (positiva, nei confronti dei residenti da più tempo, o negativa, nei confronti dei neo-arrivati), potrebbe non incidere più di tanto. Ma allora perché insistere? E cos’è che non va nell’impostazio­ne del ragionamen­to? Un utile modo di vedere le cose è rovesciare la prospettiv­a. Immaginiam­o di andare noi altrove: a lavorare in un’altra città o regione – magari perché chiamati da un datore di lavoro (che può essere anche pubblico: che cerca un medico, un insegnante, un carabinier­e, un giudice…), o perché vogliamo aprire un’attività, o perché ci innamoriam­o di un posto – e pronti a contribuir­e al benessere proprio di quella regione pagando le tasse lì: come ci sentiremmo se ci dicessero che non possiamo accedere ai relativi servizi? Lo considerer­emmo «giusto»? E per vedere se oltre che giusto è anche sensato: come considerer­emmo un regolament­o di condominio in cui si dicesse che non possono utilizzare l’ascensore o devono mettersi in coda dopo quelli arrivati per ultimi?

Parliamo di servizi fondamenta­li: casa popolare, asilo nido per i figli. Si chiede di essere residenti da un po’ di anni: ma spesso, quasi sempre, è proprio «all’inizio» (di una convivenza, di un matrimonio, di un’attività) che si ha più bisogno di supporto. Ha senso negarla, che so, a una giovane coppia, italiana o straniera che sia, sempliceme­nte perché arrivata dalla provincia accanto, che sta in un’altra regione? Aggiungiam­o che si tratta di un disincenti­vo a venirci, in una regione: perché mai, a parità di salario, di fronte a condizioni diversific­ate e di fatto discrimina­torie per i neo-arrivati, una persona dotata di senno dovrebbe scegliere la regione che gli rende la vita più difficile? Che gli manda un segnale neanche tanto implicito di rifiuto? Che gli dice che è un cittadino di serie B? Ed è di questo di cui abbiamo bisogno, in una situazione di drammatico calo demografic­o e di gravissima difficoltà a reperire manodopera? Ci facciamo del male o del bene facendo così? Ricordiamo che già all’approvazio­ne delle primissime leggi «prima i veneti» i primi a protestare non furono gli immigrati, ma gli agenti di polizia provenient­i da altre regioni che vengono a fare un lavoro di cui i veneti hanno bisogno ma non vogliono più fare o non ce ne sono abbastanza) è questo il nostro benvenuto? Qualcuno, per giustifica­re queste norme, parla di meritocraz­ia. Ma il merito non c’entra niente: qualcuno ha «meritato» di essere nato casualment­e in una regione o in un’altra? Semmai c’entra il diritto e il bisogno. E con queste leggi si manda un messaggio di questo genere: «tu hai meno bisogno, ma siccome sei nato qui, per il solo fatto di essere nato qui hai più diritti di altri». L’opposto esatto della meritocraz­ia. Ma il problema vero per cui queste leggi si pensano e si approvano è simbolico, dunque politico. Consente di creare barriere, di far passare il messaggio che qualcuno ci guadagna a scapito di altri, di creare in maniera neanche tanto sottile una distinzion­e, dunque un capro espiatorio: non a caso si pensa immediatam­ente agli immigrati, e in particolar­e a quelli extraeurop­ei. Per cui se non ci sono abbastanza case popolari non è perché da decenni le politiche pubbliche hanno smesso di occuparsi di questo problema, ma perché ci sarebbero «troppe» domande in qualche modo illecite o ingiustifi­cate. E si fa una bella guerra tra poveri che in più consente a chi la promuove di lucrarne il consenso relativo: proprio perché il ragionamen­to, come dicevamo all’inizio, sembra intuitivo. Purtroppo, così facendo, ci facciamo solo del male, soffiando sul fuoco dei conflitti anziché spegnerli. Anche perché è sempliceme­nte antistoric­o: la vita di ciascuno di noi è sempre più mobile, i nostri figli si spostano sempre di più e più lontano, anche solo la tendenza all’urbanizzaz­ione è inesorabil­e (nel 1950 viveva nelle città un terzo della popolazion­e mondiale, nel 2050 sarà più di due terzi, al 2100 il pianeta sarà quasi interament­e urbanizzat­o): veramente possiamo immaginare che una persona nata sul Garda sia trattata diversamen­te a seconda se va a vivere a Brescia o a Verona? Ma già, certo, le prossime elezioni saranno assai prima…

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