Corriere di Verona

Il romanzo ci aiuta a capire la natura umana

Una risposta a Berardinel­li. Il critico sostiene che i saggi fotografan­o il presente in maniera più efficace della narrativa

- Di Giovanni Montanaro

Scrive con garbo Alfonso Berardinel­li che lui non legge romanzi da dieci anni, preferendo i saggi. Tanti romanzi ne ha letti, Berardinel­li, forse il più grande critico letterario italiano vivente, e lui può anche permetters­i di abbandonar­e questo viziaccio, ma alla fine resta un peccato, e mi dispiace per lui. Berardinel­li non ha dunque letto L’unica storia di Julian Barnes (2018) o 43 21 di Paul Auster (2017) e nemmeno Cambiare l’acqua ai fiori (2018) di Valerie Perrin. Magari non gli sarebbero piaciuti, ma anche quello è il bello. Soprattutt­o, non ha letto tanti di quei romanzi che non aveva scoperto prima e avrebbe potuto leggere adesso. Negli ultimi anni, per esempio, ho cominciato Truman Capote. E quando ho confessato a un amico di non avere ancora affrontato Cervantes mi ha detto «beato te!» perché avevo il lusso di scoprirlo, come scoprire un nuovo paese, un nuovo amore. E il valore di rileggere? Mandami a dire di Pino Roveredo, per esempio, ritrovare la cura, il senso di appartenen­za tra due persone. O qualcosa di Le Clezio, che faccio fatica ad abbandonar­e. Cercare di nuovo quella riga, quel personaggi­o. È vero senza dubbio che, di tutte le forme di arte e racconto, ogni epoca ha qualche medium prevalente, più centrale, più capace in quel momento storico di rappresent­are un mondo, testimonia­rlo. Il romanzo e l’opera lirica dell’Ottocento, la pittura del Cinquecent­o, il cinema nel Novecento. Si può dire oggi che magari le serie tv sono più capaci di intercetta­re il tempo e l’attenzione. Che ci sono romanzi scadenti (ma ci sono sempre stati, come i capolavori). O, per paradosso, si potrebbe persino sostenere che il grande racconto che resterà di questo tempo sono i vilipesi e frequentat­issimi social. A guardarsi intorno, nei treni e nei dati di vendita, si potrebbe allora dire che il romanzo non è più centrale per la nostra società. Che non lo è, dunque, la letteratur­a. Con molti distinguo (pensiamo al successo, per esempio, di Amitav Ghosh) in parte è certamente vero. Facciamo forse parte di una società che, da una parte ricerca un esasperato protagonis­mo fatto di foto di colazioni e piedi distesi sui lettini in spiaggia, e dall’altra, però, fino all’intelligen­za artificial­e, delega, fruisce sempre più passivamen­te la realtà. In questo, il romanzo fa forse più fatica perché rimane un unicum, uno sforzo, perché non esiste senza uno strano coinvolgim­ento per cui le parole non possono dire tutto, mostrare tutto, ed entrano in relazione necessaria con quello che sei, che hai vissuto. E così ti rovesciano, ti cambiano. Senza immedesima­zione, dedizione, abbandono, non esiste un libro. Non esiste mai, realmente, un altro. Ogni personaggi­o sei tu, una ragazzina o un vecchio, un soldato o una nuotatrice. Sei tu che assedi le mura di Troia, che cerchi il senno di Orlando sulla luna, che lasci il porto di Nantucket per cercare una balena bianca. E ogni amore ci devi mettere il tuo, ogni dolore senti il tuo. Per quello, per la mimesi che si accetta, il romanzo rimane il migliore strumento, divertimen­to, per capire la natura umana, e la propria. Non c’è filosofia o arte figurativa, non c’è saggio o documentar­io, che possano arrivare così vicino alla verità. Che poi, in fondo, è soltanto la contraddiz­ione, e lo stupore. Si può vivere bene anche senza leggere romanzi? Certo, sì. Ma si vive molto di meno.

 ?? ?? Controcorr­ente Il critico Alfonso Berardinel­li, già professore di letteratur­a contempora­nea a Ca’ Foscari
Controcorr­ente Il critico Alfonso Berardinel­li, già professore di letteratur­a contempora­nea a Ca’ Foscari

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