Corriere Fiorentino

Com’è buona la gentilezza nell’osteria dell’Oltrarno

IL RISTORANTE IL SANTO BEVITORE

- Helmut Failoni

Sono seduto su uno sgabello. Di fronte a me, leggerment­e a mia sinistra, una Legend E 61 Faema. Che è una macchina da caffè. Bella lucida. Sono, sembra, anche stato fortunato, perché quello era l’ultimo posto libero. E fuori c’era una fila di gente che attendeva si liberasse un tavolo. È un martedì qualunque. Il ristorante apre alle 19.30. Arrivo alle 19.40 pensando (stupidamen­te) «ma no, non prenoto, tanto un martedì in primissima serata chi vuoi che ci vada».

Errore (mio) clamoroso, perché il Santo Bevitore è pieno all’inverosimi­le. E per fortuna che il personale (che elogerò tra poco anche per un’altra attenzione avuta nei confronti di uno sconosciut­o, che sarei io) mi fa aspettare solo 5 minuti e poi mi trova un posto al bancone. Che a me non dispiace. Perché il bancone è un punto di vista privilegia­to per vedere come gira il lavoro, come si muove i l personale, come s i rapportano i dipendenti fra di loro… Sono in molti (i dipendenti): magliette a maniche corte nere e marroni con una piccola scritta, «Il Santo Bevitore», stampata in giallo sul petto. Tutti giovani. Preparati (almeno i tre che hanno avuto a che fare con il sottoscrit­to). E pazienti. Molto pazienti. Perché vi assicuro, gestire quell’orda di gente che ti fa domande su qualsiasi cosa (del tipo anche a che ora apre il Museo Nazionale del Bargello) e in tutte le lingue, ti ferma, ti tira per la giacchetta, reclama il piatto, un bicchiere vuoto o una sedia per l’amico che è arrivato all’ultimo, non è semplice. Anzi. La scala dei decibel vira verso l’alto. Eppure questi ragazzi sono di una gentilezza disarmante. Il tintinnio dei bicchieri, il rumore delle chiacchier­e o di una posata che cade, il fragore delle risate dei clienti, sono la colonna sonora di un posto dove si mangia bene. Confesso che mentre masticavo l’ottimo contenuto dei miei piatti ho pensato che no, una cucina così piacevole, non può essere gustata in un tale rumore, che una cucina così ha bisogno del suo silenzio. L’atto del mangiare, del bere, necessitan­o di concentraz­ione e attenzione, perché se mangi così tanto per mangiare alla fine dei conti un locale vale l’altro. E invece qui sono bravi. Come entrata ordino uno sgombro marinato allo yuzu (assaggiato da solo è sapido, ma amalgamato nell’insieme del piatto si stempera in sapori diversi e non scontati). La Ter- rina di fegatini di pollo con ristretto di Vin Santo e pan brioche, benché leggerment­e bruciata sul «cappello», è notevole per il susseguirs­i di sensazioni di dolce/salato/amaro. Chiudo con un Reale di faraona ripieno, salsiccia, pomodoro secco, cocomero padellato. Cottura giusta: la carne è umida in ogni parte. Il cocomero spadellato potrebbe lasciare perplessi, ma solo sulla carta, perché in bocca «asciuga» il grasso e rinfresca. Ordino una bottiglia di vino (con questa stagione i rossi non dovrebbero essere tenuti sugli scaffali, perché possono prendere botte di calore rovinose). Assaggio, rimango un po’ perplesso tra me e me, ma dico che il vino va bene. Notano che dopo infilo il naso a più riprese nel bicchier e , e v i d e n temente con un’espression­e non convinta. Senza che io dica nulla vengono e mi cambiano la bottiglia. «Bere deve essere un piacere, e lei non ci sembra contento», dicono. Conto sui 40 euro.

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