Il partigiano Pacini: «Il mio 11 agosto, con questa pistola nascosta nel libro»
«Vabene si parla della Liberazione, ma poi si parla anche di futuro. Perché il modo migliore di onorare la memoria dei morti è parlare dei vivi». Giorgio Pacini era in prima fila 71 anni fa, sotto il fuoco tedesco, ed era in prima fila ieri nel Salone de’ Cinquecento.
Con lui in Palazzo Vecchio la moglie Marcella che nel 1944 era la sua fidanzata. Classe 1922, Giorgio Pacini racconta volentieri quei momenti terribili, il passato ma solo a patto di discutere poi del presente e del futuro. Un futuro che ha radici lontane, costruito anche da ventenni come lui.
«Abitavamo al Pignone, dove allora c’era la grande fabbrica e dove lavorava mio babbo Antonio che fu mandato al confino perché antifascista e tutto il quartiere era contro il fascismo. Io feci il Balilla e poi il pre-militare ma quando venivano a casa a prendermi non mi facevo quasi mai trovare. Lavoravo già alla Fiat. Un giorno però i fascisti mi presero, mi portarono al circolo Luporini, mi picchiarono ben bene e poi per dieci domeniche dovetti andare alla sede della Gil in piazza Beccaria, dove da tempo c’è l’Archivio di Stato, e in cella dormivo sulle assi, il “pancaccio” come lo chiamavamo. Ecco — prosegue Pacini — più che le botte mi fece arrabbiare il fatto di non poter andare la domenica a vedere le corse di galoppo alle Mulina e scommettere. E così quando tornai in fabbrica a Novoli iniziai l’attività antifascista clandestina». Giorgio era giovane, impetuoso, anche impudente — «prendevo in giro mio babbo, che era socialista perché lui mi raccontò che una volta, durante un loro comizio in piazza San Gallo (oggi Libertà, ndr) qualcuno tirò giù improvvisamente un bandone e loro scambiarono il botto per una bomba e scapparono» — sicuramente un po’ incosciente. «Ho anche le medaglie per avere combattuto per Mussolini — sorride — Nel 1942 fui arruolato in Marina e assegnato ad una motovedetta. Poco dopo a Biserta, dove eravamo arrivati scortando un convoglio di navi, la motosilurante ebbe un problema alle eliche, riuscimmo a risolverlo immergendoci proprio mentre cominciava un bombardamento alleato e riportammo il mezzo in Italia. La Marina ci decorò tutti con una medaglia di bronzo, ma in realtà avevamo pensato solo a salvare la pelle». Nel 1943 con l’aumentare della confusione e lo sfaldamento dell’esercito, Pacini iniziò a venire spesso a Firenze e alle Officine Fs di Porta a Prato, assieme ad altri, faceva atti di sabotaggio. «E la notte andavo a fare scritte nel rione contro Mussolini ed il fascismo; io, un certo Pierino e Alighiero Santoni». Prima della Liberazione Pacini ha rischiato la vita almeno un paio di volte. «Una è stata quando eravamo al cinema Rex (Apollo, ndr) con Marcella a vedere Via col vento e la banda Carità fece irruzione prendendo tutti i giovani per portarli ai lavori forzati in Germania. Ci portarono in via Maggio, alla sede della Guardia Nazionale Repubblicana, dove arrivò di corsa la mia fidanzata, e mi salvai perché in tasca avevo una falsa licenza militare della Marina, scritta proprio da Marcella, e in quanto soldato mi rilasciarono». Ancora più rischiosa fu un’altra situazione. «In casa, con gli attrezzi che la Pignone aveva dato al babbo, come ad altri, perché non fossero presi dai tedeschi come avevano fatto coi macchinari, saldavamo i chiodi a tre punte per forare le gomme ai mezzi tedeschi. Ci fu un attentato vicino casa nostra, i tedeschi perquisirono le case, anche la nostra, ma non ci trovarono: ci eravamo nascosti nella stanzetta dove costruivano i chiodi tricuspidati, il cui ingresso era camuffato da un grande armadio». Fa una pausa: «Se ci avessero trovati ci avrebbero uccisi sul posto: non avemmo paura, di più, eravamo in preda al panico».
Alla fine arrivò il momento atteso. «Noi eravamo entrati nelle Sap del Pignone-Monticelli, poi inquadrati nella Brigata Sinigaglia e ormai giravo in città con un libro sotto braccio, dentro cui era nascosta una pistola 7 e 65, ma sapemmo che era arrivata l’ora della insurrezione da un gruppo di militari, che non erano inquadrati tra i partigiani — ricorda l’ex sindacalista Fiom — La parola d’ordine era “Stefania ha partorito” e appena la sentimmo ci preparammo. E riuscimmo a recuperare i mitra che avevamo nascosto dentro la capella seicentesca di San Carlo Borromeo, anche se vicino c’era una postazione tedesca di mitragliatrici pesanti, passando dalle fogne». L’11 agosto, nel buio, al silenzio, Pacini (che in quei giorni conobbe Potente) e altri partigiani attraversarono l’Arno, passando sulla riva destra: «Erano le 5, io avevo esperienza militare e guidavo una squadra. Sparammo sul Mugnone, in piazza San Jacopino, a Novoli dove c’era la Fiat e dove un colpo tedesco mi staccò di netto una falange. Combattemmo fino al 15-16 agosto e la mia Sap ebbe il compito di snidare i franchi tiratori. In via il Prato, da un abbaino sparavano su donne e bambini che prendevano l’acqua ad una fontanella. Noi salimmo su di soppiatto, tirai una bomba a mano nell’abbaino e poi ci fu solo il silenzio». L’ultimo episodio di Giorgio Pacini partigiano fu l’atto di orgoglio dei combattenti fiorentini che prima di smobilitare alla Fortezza il primo settembre vollero sfilare in corteo per Firenze: «Costringemmo gli Alleati a farcelo fare, altrimenti non avremmo mai dato loro le armi. Io comunque mi son tenuto la mia 7 e 65», dice mentre mostra il libro-nascondiglio.
Poi iniziò la vita « civile » , l’impegno con il Pci, il sindacato, l’antifascismo e poi l’Anpi. «Abbiamo passato certi momenti, fatto cose che a raccontarle adesso quasi non ci si crede. Ci voleva coraggio», dice Marcella guardano il suo Giorgio. «Io non sono un personaggio, un protagonista, sono stato uno dei tanti — si schernisce Giorgio — racconto queste cose perché ormai siamo rimasti in pochi. L’11 agosto non deve essere solo una celebrazione, non si deve guardare solo alla storia — spiega Pacini — Si deve guardare avanti, stare attenti a che il fascismo non ritorni, che certe cose non si ripetano. Si deve uscire dalle celebrazioni, andare nelle case del popolo, discutere con i ragazzi perché conoscano le cose. E poi vadano a votare: non ha senso protestare e poi non votare. Mi raccomando, dico a lei quello che avrei detto oggi (ieri, ndr) se avessi parlato nel Salone de’ Cinquecento: guardiamo, guardate al futuro».
Ero militare, guidavo una squadra. Sparammo sul Mugnone, a Novoli, a San Jacopino